Discriminazione dei lavoratori con disabilità e dei familiari di persone con disabilità

La Convenzione ONU sui Diritti delle persone con disabilità richiama più volte il concetto di discriminazione. Nell’articolo 27, in particolare, viene sancito il divieto di «discriminare sulla base della disabilità con riguardo a tutte le questioni concernenti ogni forma di occupazione, incluse le condizioni di selezione, assunzione e impiego, mantenimento dell’impiego, avanzamento di carriera e le condizioni lavorative sicure e salubri».

I casi di discriminazione nel mondo del lavoro possono essere molteplici.

C’è discriminazione nello svolgimento del corso di studi se le materie che prevedono la frequenza obbligatoria non tengono in considerazione le esigenze di cura dello studente, se non viene utilizzato materiale didattico adeguato al tipo di disabilità ecc.

C’è discriminazione nella fase di ricerca del lavoro quando si verifica l’assenza di servizi di accompagnamento e di operatori qualificati.

C’è discriminazione nella fase di selezione non solo quando si è in presenza di “autocandidature”, ma anche da parte di taluni centri per l’impiego che sembrano optare per l’inserimento di persone con patologie maggiormente “stabilizzate” escludendo chi ha patologie progressive e le persone con disabilità psichica e intellettiva.

C’è discriminazione nello svolgimento dei concorsi pubblici dove si evidenziano, ad esempio, ancora errori grossolani nell’utilizzo di ausili per lo svolgimento delle prove e modalità concorsuali inadeguate per le persone con disabilità intellettiva.

La doppia discriminazione

Per gli adulti con disabilità gravi (ad esempio le persone con disabilità intellettiva) il livello di disoccupazione è elevatissimo, così come il rischio di diventare o restare poveri. Chi ha bassi livelli di istruzione ha ancora più problematiche. Quando ci sono aspetti legati alla comunicazione il rischio di essere esclusi è totale.

Chi ha patologie progressive con sintomi “invisibili” esprime seri timori sull’opportunità di richiedere l’accertamento dell’invalidità civile, rifiutando così intenzionalmente le eventuali possibilità offerte dall’iscrizione presso gli uffici del collocamento mirato. Temono che possa derivarne esclusivamente lo “stigma sociale” e nessuna valida proposta lavorativa.

Altri lamentano difficoltà di inserimento, segnalano realtà in cui le reti informali per la ricerca di lavoro sono deboli e talune situazioni in cui i datori di lavoro si pongono ? a priori ? dei problemi circa la continuità della futura prestazione d’opera da parte della persona, senza avere una corretta informazione circa le patologie e le possibilità che offrono i tempi di diagnosi, le terapie attuali, gli ausili e la tecnologia.

La mancanza di misure di integrazione e di azioni positive costringe le donne a subire ? tanto nell’inserimento, quanto nello svolgimento del rapporto di lavoro ? una discriminazione “doppia” derivante dall’interazione tra la discriminazione dovuta alla disabilità e al fatto di essere donne. Quando si verificano situazioni di diverso trattamento dovute contemporaneamente alla disabilità, all’appartenenza di genere, all’età, alla razza, alla religione, la discriminazione diviene “multipla”.

La discriminazione quando si lavora

Ancora più numerosi e subdoli sono gli episodi di discriminazione durante lo svolgimento del rapporto di lavoro. Facciamo qualche esempio.

Rappresentano una discriminazione nella retribuzione i premi di produttività legati alla presenza al lavoro e non agli obiettivi raggiunti.

Sono evidenti discriminazioni le compressioni nella progressione di carriera, correlate ad esempio al fatto che si utilizzano i permessi della Legge 104/1992 e le altre agevolazioni previste dalla vigente normativa a tutela della disabilità (es. esonero dal lavoro notturno).

Sono discriminazioni le limitazioni immotivate nella scelta della sede e nei trasferimenti previsti dalla Legge 104/1992.

Ancora di più, in questa fase, rappresentano una grave discriminazione i licenziamenti incondizionati, attuati magari “approfittando” della innegabile crisi congiunturale. Si attuano di fatto ristrutturazioni aziendali a scapito soprattutto delle fasce più deboli.

E infine il mobbing: vengono quotidianamente segnalati episodi di pressione e di condizionamento negativo attuati nei confronti di lavoratori per il solo fatto che sono persone con disabilità.

La normativa di riferimento

Parlando di discriminazione la mente va immediatamente alla Legge 67/2006 (Misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni), ma non è questo il riferimento normativo corretto. Il primo articolo della Legge 67, infatti, ricorda che nei casi di discriminazioni in pregiudizio delle persone con disabilità relative all’accesso al lavoro e sul lavoro, valgono le disposizioni del Decreto Legislativo 9 luglio 2003, n. 216, una disposizione di attuazione della Direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.

È quindi al Decreto Legislativo 216/2003, il quale stabilisce il divieto di discriminare sia nel settore pubblico sia in quello privato, che dobbiamo far riferimento.

Le aree sono specificamente individuate: l’accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione; l’occupazione e le condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di carriera, la retribuzione e le condizioni di licenziamento; l’accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale, perfezionamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini professionali; l’affiliazione e l’attività svolta nell’ambito di organizzazioni di lavoratori, di datori di lavoro o di organizzazioni professionali e le prestazioni erogate dalle medesime organizzazioni; la protezione sociale, inclusa la sicurezza sociale.

Nell’articolo 2 del Decreto è prevista una nozione di discriminazione piuttosto ampia: vi è discriminazione diretta «quando (…) una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga» (comma 1, lett. a); è indiretta «quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone (?) in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone» (comma 1, lett. b).

Sono considerate come discriminazioni anche le molestie ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per i suddetti motivi, aventi «lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo» (art. 2, comma 3).

Che fare?

Il lavoratore, sia esso disabile o meno, che ritiene di essere vittima di una discriminazione (o è stato oggetto di un comportamento pregiudizievole posto in essere quale reazione ad una sua precedente attività diretta ad ottenere la parità di trattamento) può ricorrere, avvalendosi di un avvocato esperto di diritto del lavoro, alla magistratura per ottenere un provvedimento di cessazione del comportamento illegittimo.

Il giudice, qualora accolga il ricorso, oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno anche non patrimoniale, «ordina la cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio, ove ancora sussistente, nonché la rimozione degli effetti», e può disporre, al fine di impedire la ripetizione delle discriminazioni, l’adozione di un piano di rimozione delle discriminazioni accertate oltre alla pubblicazione della sentenza, a spese del convenuto, per una sola volta su un quotidiano di tiratura nazionale (D. Lgs. 216/2003, art. 4, commi 5 e 7).

Infine il giudice adito deve tener conto, ai fini della liquidazione del danno subito dal ricorrente, della circostanza che l’atto o comportamento discriminatorio siano stati posti in essere per ritorsione ad una precedente azione giudiziale, ovvero quale ingiusta reazione ad una precedente attività del soggetto leso volta ad ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento.

Le organizzazioni sindacali, le associazioni e le organizzazioni rappresentative del diritto o dell’interesse leso, in forza di delega, rilasciata per atto pubblico o scrittura privata autenticata, a pena di nullità, sono legittimate ad agire, in nome e per conto o a sostegno del soggetto passivo della discriminazione, contro la persona fisica o giuridica cui è riferibile il comportamento o l’atto discriminatorio.

Tali soggetti sono, altresì, legittimati ad agire nei casi di discriminazione collettiva qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione.

A cura dell’avvocato Silvia Bruzzone

Riferimenti normativi:

Decreto Legislativo 9 luglio 2003, n. 216 (Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro).

Vedi anche:

Mobbing e disabilità

 

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