Quando un lavoratore, a causa di uno stato di incapacità naturale, non sia in grado di impugnare il licenziamento, neppure in forma stragiudiziale, entro i termini previsti dalla legge, non perde per questo il diritto di farlo.

In tali circostanze, egli non è tenuto a rispettare il termine di 60 giorni dalla comunicazione del licenziamento previsto per l’impugnazione, ma resta comunque soggetto al limite massimo per il deposito del ricorso, per la richiesta di arbitrato o per quella di conciliazione.

In sintesi, il lavoratore potrà agire in giudizio entro il duecento quarantunesimo giorno dalla data in cui la comunicazione di licenziamento è stata consegnata al suo domicilio.

Questo è quanto stabilito dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 111/2025.
Con tale decisione, la Consulta ha operato un bilanciamento tra la tutela dei diritti del lavoratore in condizione di incapacità di intendere e di volere, le esigenze di certezza e celerità dei rapporti giuridici e la necessità, anche per il datore di lavoro, di garantire stabilità all’attività che gestisce.

L’articolo posto al vaglio dei giudici costituzionali è il primo comma dell’articolo 6 della legge n. 604 del 1966, che stabilisce:

“Il licenziamento deve essere impugnato, a pena di decadenza, entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch’essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore, anche attraverso l’intervento dell’organizzazione sindacale diretto a impugnare il licenziamento stesso.”

Questo comma è stato dichiarato incostituzionale dalla Corte, in quanto non prevede, per il lavoratore incapace di intendere e di volere: da un lato, l’esonero dall’obbligo di contestare il licenziamento entro 60 giorni dalla sua comunicazione; dall’altro, il dovere, a pena di decadenza, di depositare il ricorso o di comunicare la richiesta di conciliazione o arbitrato entro 240 giorni dalla comunicazione del licenziamento.

Esaminiamo ora le motivazioni che hanno condotto la Consulta a dichiarare l’incostituzionalità parziale della norma.
Innanzitutto, il comma in esame non riconosce al lavoratore incapace di intendere e di volere la possibilità di impugnare il licenziamento oltre il termine di 60 giorni. Questo rappresenta un ostacolo concreto al diritto di difesa in sede giurisdizionale, garantito a tutti dall’art. 24 della Costituzione.
Il limite di 60 giorni per contrastare la decisione del proprio datore di lavoro è, infatti, troppo breve per essere rispettato da lavoratori in condizioni tali da non comprendere pienamente le implicazioni dell’atto ricevuto e da non poter agire di conseguenza.

Sebbene il legislatore goda di ampia discrezionalità nel delineare gli istituti processuali, e dunque anche la durata e la natura dei termini che condizionano l’esercizio del diritto di difesa, tale discrezionalità non è illimitata.
Al contrario, essa incontra un limite preciso, rappresentato dalla “manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte fatte”, che si verifica quando tali scelte comportano un’ingiustificabile compromissione del diritto di agire, mediante l’imposizione di oneri o modalità tali da rendere impossibile, o quasi, l’esercizio del diritto di difesa e lo svolgimento delle attività processuali.

Stabilire una scadenza perentoria per l’esercizio di un diritto non deve diventare un ostacolo effettivo e insormontabile all’esercizio stesso. Cosa che, invece, accade nel caso del termine decadenziale in esame, che i lavoratori in stato di incapacità naturale possono trovarsi impossibilitati a rispettare.

La Corte rileva che, in questo modo, la norma preclude l’effettività del diritto al lavoro e alla sua tutela, violando così l’art. 4, comma 1, e l’art. 35, comma 1, della Costituzione.
È evidente che, secondo la Carta Costituzionale la persona colpita da incapacità di intendere e di volere, anche se temporaneamente, non può essere privata del diritto di agire e di difendersi in giudizio a causa della sua condizione.

I giudici costituzionali, pertanto, nella loro pronuncia hanno rilevato un  ulteriore profilo di incostituzionalità: il contrasto della previsione  ex art. 6, comma 1, della legge n. 604/1966 con l’art. 3 della Costituzione, che sancisce il principio di uguaglianza e impone che situazioni diverse siano trattate in modo diverso, assicurando a tutti l’effettivo godimento dei diritti e imponendo alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli che, di fatto, impediscono ai soggetti in condizione di fragilità di accedere pienamente ai propri diritti.

Pur accogliendo dunque la tesi della Corte di Cassazione in merito all’incostituzionalità del primo comma dell’articolo 6, i giudici costituzionali ha chiarito l’impossibilità di emanare una pronuncia “additiva” che elimini del tutto la previsione di un termine massimo per l’impugnazione da parte dei lavoratori incapaci naturali, come suggerito, invece, dalla suddetta Corte.
Ciò perché l’esigenza di un termine oltre il quale non sia più possibile impugnare il licenziamento risponde a criteri di certezza nei rapporti giuridici e di celerità nella loro definizione.

Per questo motivo, come precedentemente chiarito, la sentenza n. 111/2025 stabilisce che i lavoratori in stato di incapacità naturale possano impugnare il licenziamento, mediante deposito del ricorso in Tribunale o comunicazione della richiesta di arbitrato o conciliazione, entro 240 giorni dalla ricezione della comunicazione stessa.

 

Approfondimento a cura del Centro Studi Giuridici HandyLex

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