Definizioni utili per la lettura dell’approfondimento
Accomodamenti ragionevoli: modifiche e adattamenti necessari e appropriati per garantire, in ragione della condizione di disabilità, l’accesso e il godimento dei diritti su base di uguaglianza, senza comportare un onere sproporzionato o eccessivo per il datore di lavoro o per l’ente obbligato.
Discriminazione per associazione: la discriminazione nei confronti di una persona perché è collegata a un individuo o a un gruppo appartenente a una categoria protetta (ad esempio, disabilità, etnia, orientamento sessuale).
Una persona può, per esempio, essere discriminata perché è parente, amica o collega di una persona con disabilità, anche se non presenta essa stessa tale condizione.
Discriminazione diretta e discriminazione indiretta:
- La discriminazione diretta si verifica quando qualcuno è trattato in modo meno favorevole rispetto ad altri per una caratteristica specifica, come l’età, il sesso o la disabilità, in una situazione analoga.
- La discriminazione indiretta, invece, si manifesta quando una regola, un criterio o una prassi apparentemente neutri producono effetti svantaggiosi per un determinato gruppo di persone, anche se tale conseguenza non è intenzionale.
Direttiva UE: atto legislativo vincolante dell’Unione Europea che stabilisce un obiettivo da raggiungere per tutti gli Stati membri, lasciando a ciascuno la libertà di scegliere i mezzi e le forme per attuarlo nel proprio ordinamento nazionale.
Le direttive richiedono pertanto un atto di recepimento da parte degli Stati membri entro un termine prestabilito, trasformandole in leggi nazionali.
L’Italia ha recepito la Direttiva UE 2000/78 con il Decreto Legislativo 9 luglio 2003, n. 216.
L’11 settembre 2025 la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha pubblicato la sentenza C-38/24, con la quale ha risposto ai seguenti quesiti posti dalla Corte di cassazione italiana:
- Al caregiver lavoratore di un minore con disabilità ad elevata necessità di sostegno è estesa la tutela contro la discriminazione indiretta in ambito lavorativo, riconosciuta alle persone con disabilità dalla Direttiva UE 2000/78, in ragione del suo lavoro di cura?
- È dovere del datore di lavoro adottare tutte le misure ragionevoli per garantire al dipendente caregiver un trattamento pari a quello degli altri lavoratori?
- Chi rientra nella definizione di “caregiver” utile ai fini dell’applicazione della Direttiva UE 2000/78 a questa categoria di persone?
Risposta al primo quesito
La Corte di Giustizia ricorda che la Direttiva 2000/78, già nel suo preambolo, stabilisce l’obiettivo di garantire la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro a tutte le persone, prevedendo la protezione contro la discriminazione fondata su uno dei motivi da essa elencati, tra cui figura anche la disabilità.
Pertanto, sottolineano i giudici europei, la tutela assicurata da tale fondamentale atto comunitario è rivolta a ogni individuo, e non soltanto a specifiche categorie.
Si tratta di una tutela che si attiva in relazione alla motivazione alla base del trattamento discriminatorio subito dal singolo.
Questa interpretazione risulta coerente con le disposizioni della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (CRPD) che, agli articoli 2 e 5, garantisce protezione contro le discriminazioni dirette e indirette, comprese quelle rientranti nella tipologia di “discriminazione per associazione”.
Essa tutela anche chi subisce un trattamento svantaggioso a causa della condizione di disabilità di un’altra persona, pur non essendo egli stesso disabile.
Dopo la ratifica da parte dell’Unione Europea, la CRPD è divenuta parte integrante del diritto dell’Unione e deve quindi essere utilizzata come strumento interpretativo delle sue norme.
Inoltre, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (Carta di Nizza), dal 2007 equiparata ai trattati istitutivi, sancisce all’articolo 21 il principio generale di non discriminazione sulla base della disabilità, principio che deve orientare l’interpretazione di ogni regolamento, direttiva o raccomandazione dell’Unione.
La sentenza chiarisce che, sebbene la Direttiva 2000/78 contenga disposizioni rivolte in modo specifico alle persone con disabilità, limitarne la portata esclusivamente a queste ultime costituirebbe un errore.
Una simile interpretazione svuoterebbe la direttiva del suo significato e ne comprometterebbe l’obiettivo principale: fornire un quadro generale per la lotta contro le discriminazioni in ambito lavorativo, garantendo la parità di trattamento.
Come riconosciuto più volte dalla stessa Corte, la direttiva vieta sia la discriminazione diretta sia quella indiretta.
Per rispondere al primo quesito, i giudici europei hanno inoltre richiamato gli articoli 24 e 26 della Carta di Nizza, che garantiscono rispettivamente:
- il diritto dei minorenni a ricevere il supporto e le cure necessarie al loro benessere, imponendo alle istituzioni pubbliche e private il dovere di rispettare tale diritto;
- il diritto delle persone con disabilità a ricevere i sostegni necessari per autodeterminarsi e godere di una buona qualità della vita.
Tali disposizioni devono essere applicate per dare concreta attuazione al principio di non discriminazione sancito dall’articolo 1 della Direttiva 2000/78.
Il quesito ha inoltre consentito alla Corte di richiamare le ulteriori previsioni della CRPD, tra cui:
- l’obbligo degli Stati di supportare la famiglia e i caregiver delle persone con disabilità, per consentire loro di contribuire al pieno godimento dei diritti dei propri cari;
- la necessità di adottare accomodamenti ragionevoli per eliminare situazioni discriminatorie;
- e l’articolo 7, che impone agli Stati di garantire ai bambini con disabilità il pieno esercizio dei diritti umani su un piano di uguaglianza con gli altri minori.
Da questa analisi normativa la Corte di Giustizia ha dedotto che il lavoratore caregiver ha diritto a essere posto nella condizione di poter fornire al proprio figlio con disabilità l’assistenza necessaria, affinché questi possa ricevere cure adeguate e godere dei propri diritti fondamentali.
Risposta al secondo quesito
La Corte riconosce, sulla base delle argomentazioni già esposte e della definizione di accomodamento ragionevole contenuta nella Direttiva 2000/78 e nella CRPD, il dovere del datore di lavoro di adottare tutte le misure necessarie per consentire al dipendente caregiver di prestare l’assistenza fondamentale al proprio figlio con disabilità.
La Corte precisa che la nozione di accomodamento ragionevole nel diritto dell’Unione, coerente con la Convenzione ONU, è ampia.
Tra le misure possibili possono rientrare, ad esempio:
- la ricollocazione del lavoratore in un ruolo più compatibile con le esigenze connesse al suo ruolo di caregiver;
- la riduzione dell’orario di lavoro o altre forme di flessibilità organizzativa.
Le misure devono essere calibrate in base alle specificità del caso concreto e devono permettere al lavoratore di partecipare pienamente alla vita professionale su un piano di uguaglianza con i colleghi, indipendentemente dal fatto che egli stesso sia o meno una persona con disabilità.
La Corte ricorda, tuttavia, che il dovere datoriale di adottare accomodamenti ragionevoli non è assoluto.
Il datore di lavoro ne è esonerato qualora la misura richiesta comporti un onere finanziario sproporzionato, tenuto conto:
- della capacità economica dell’impresa,
- della sua dimensione,
- e della possibilità di accedere a fondi pubblici o privati di sostegno.
Inoltre, l’obbligo di trasferire il dipendente caregiver o la persona con disabilità in un altro ruolo sussiste solo in presenza di una posizione effettivamente vacante e compatibile con le sue competenze.
Risposta al terzo quesito
Sul terzo quesito, relativo alla definizione di “caregiver”, la Corte UE ha dichiarato il rinvio inammissibile per motivi procedurali, in particolare per la mancanza di informazioni sufficienti fornite dal giudice nazionale.
La Corte ha comunque precisato che spetta ai giudici nazionali, tenendo conto dei principi chiariti nella presente sentenza, valutare nei singoli casi se gli accomodamenti richiesti siano proporzionati o meno.
Conclusione
La sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea conferma in modo inequivocabile l’esistenza, anche nell’ordinamento europeo, della tutela contro la discriminazione per associazione, quale forma di protezione che si estende a coloro che, pur non essendo direttamente titolari di una condizione di disabilità, subiscono un trattamento svantaggioso in ragione del legame con una persona disabile.
Questa tutela, applicata ai caregiver lavoratori, rappresenta un presidio fondamentale per la garanzia effettiva dei diritti di entrambe le parti coinvolte nel rapporto di cura:
da un lato il caregiver, che deve poter conciliare dignitosamente il lavoro con le proprie responsabilità familiari; dall’altro la persona con disabilità, che beneficia indirettamente del riconoscimento e della protezione del ruolo del proprio assistente familiare.
A conferma di ciò, anche il Comitato delle Nazioni Unite sui Diritti delle Persone con Disabilità, in occasione dell’esame di un reclamo presentato da un cittadino italiano, ha ribadito l’esistenza della protezione contro la discriminazione per associazione fondata sulla disabilità.
Il Comitato ha inoltre affermato con fermezza l’obbligo dello Stato di riconoscere giuridicamente la figura del caregiver, assicurandogli:
- una buona qualità della vita,
- una protezione effettiva contro la violazione dei propri diritti,
- e un adeguato supporto nel bilanciamento tra lavoro di cura e vita personale, al fine di garantire così anche il pieno esercizio dei diritti della persona con disabilità.
In questa prospettiva, la tutela dei diritti del caregiver si traduce in una tutela dei diritti della persona assistita, e viceversa: proteggere chi cura significa proteggere anche chi è oggetto di quella cura.
Approfondimento a cura del Centro Studi Giuridici HandyLex
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