La sentenza n. 25/2025 della Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 9.1 della legge n. 91/1992 nella parte in cui non prevedeva un’esenzione dalla prova di conoscenza della lingua italiana per gli stranieri con gravi limitazioni cognitive, fisiche, sensoriali.

Tale pronuncia segna un’importante evoluzione nel riconoscimento dei diritti delle persone con disabilità nell’ambito delle procedure di naturalizzazione.

Il contesto normativo e il caso di riferimento

L’art. 9.1 della legge n. 91/1992, introdotto dall’art. 14, comma 1, lettera a-bis, del decreto-legge n. 113/2018 (convertito con modificazioni dalla legge n. 132/2018), subordinava la concessione della cittadinanza italiana, per matrimonio (art. 5) o per naturalizzazione (art. 9), alla dimostrazione di una conoscenza della lingua italiana pari almeno al livello B1 del Quadro Comune Europeo di Riferimento per le Lingue (QCER).

Tale conoscenza doveva essere attestata attraverso un titolo di studio rilasciato da un istituto riconosciuto o tramite una certificazione linguistica ufficiale.

Tale requisito, tuttavia, non prevedeva alcuna deroga per i richiedenti con disabilità cognitive o fisiche, sensoriali che impedissero l’apprendimento della lingua italiana, determinando così una possibile discriminazione nei confronti di persone che, per le loro condizioni personali, non avrebbero mai potuto soddisfare tale requisito.

Il caso specifico sollevato alla Corte Costituzionale, riguardava una cittadina straniera la cui domanda di cittadinanza era stata respinta per mancanza del requisito linguistico, nonostante avesse gravi limitazioni cognitive certificate da enti sanitari pubblici.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per l’Emilia-Romagna ha sollevato questione di legittimità costituzionale, ritenendo che la norma violasse gli artt. 2, 3, 10 e 38 della Costituzione.

Le Motivazioni della Corte

Analizzando il quadro normativo nella sua interezza, la Corte ha ritenuto che si fosse in presenza di  una violazione di più principi di rango costituzionale; in primis la violazione del Principio di Uguaglianza (Art. 3 Cost.).

Come sappiamo l’art. 3 della Costituzione enuclea il principio dell’uguaglianza formale tra i cittadini, quale regola fondamentale di ogni Stato di diritto.

Il secondo comma invece sancisce invece il principio dell’uguaglianza sostanziale, secondo cui è compito preciso dello Stato rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che di fatto limitano la libertà e l’uguaglianza dei consociati.

La norma non si riferisce in realtà solo ai cittadini italiani, ma a qualsiasi persona;  ha valenza generale e si riferisce a tutte quelle ipotesi in cui è necessario che situazioni uguali siano trattate in maniera uguale e che situazioni diverse siano trattate in maniera diversa.

Quanto al principio di uguaglianza formale, si tratta della pari soggezione di tutti i cittadini al diritto, senza alcuna distinzione.

Tale riconoscimento implica che tutte le Autorità e di poteri dello Stato sono egualmente soggetti alla legge.

Ciò non toglie che possano essere previste disciplina differenziate per casi particolari, come l’art. 6 Cost., che impone di tutelare le minoranze linguistiche.

Sulla base di quanto evidenziato, il divieto di discriminazione va interpretato in una duplice accezione: le leggi, anche quando riferite a gruppi determinati, non possono avere carattere personale o singolare, a meno che non esistano giustificate ragioni; il principio di uguaglianza non vieta in assoluto trattamenti differenziati, ma impone discriminazioni irrazionali o irragionevoli.

La Corte, pertanto,  ha ritenuto che la norma imponesse un trattamento ingiustificatamente uniforme a situazioni diverse, penalizzando persone impossibilitate a soddisfare il requisito linguistico per cause indipendenti dalla loro volontà.

Tale imposizione è stata giudicata discriminatoria, in quanto non tiene conto delle condizioni personali dei richiedenti con disabilità.

Ha inoltre evidenziato una violazione del principio di ragionevolezza nella parte in cui il requisito linguistico, per quanto giustificato in un’ottica di integrazione sociale, non può essere richiesto a chi è oggettivamente impossibilitato a soddisfarlo.

Il principio di ragionevolezza è infatti un naturale corollario del principio di uguaglianza ed esige che le norme dell’ordinamento, in tutte le loro forme, siano adeguate al fine perseguito.

Esso rappresenta pertanto uno stringente limite alla discrezionalità del legislatore.

Le norme irragionevoli possono essere infatti oggetto di modifica anche e soprattutto per irragionevolezza.
La Corte Costituzionale, nel valutare la ragionevolezza, si serve del c.d. tertium comparationis, al fine di avere un parametro di riferimento.

La verifica della ragionevolezza comporta l’indagine sui suoi presupposti, la valutazione della compatibilità tra mezzi e fini, nonché l’accertamento dei fini stessi.

In tal senso, ha applicato il principio “ad impossibilia nemo tenetur”, già riconosciuto in altre pronunce giurisprudenziali.

Da ultimo ha evidenziato come, facendo riferimento alla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, la cittadinanza non può essere negata sulla base di una condizione di disabilità.

Il mancato esonero dal requisito linguistico rappresentava un ostacolo ingiustificato al godimento di un diritto fondamentale.

Gli effetti della sentenza

La pronuncia stabilisce che gli stranieri con gravi limitazioni alla capacità di apprendimento linguistico certificate da strutture sanitarie pubbliche sono esentati dalla prova di conoscenza dell’italiano.

Ciò garantirà un accesso più equo alla cittadinanza per le persone con disabilità.

Avrà implicazioni necessarie sulle Prefetture e gli uffici preposti al rilascio della cittadinanza che dovranno adeguare le loro procedure, prevedendo l’accettazione di certificati medici attestanti l’impossibilità di apprendere la lingua italiana come prova sufficiente per l’esonero dal requisito linguistico.

Avrà inoltre impatti giuridici e sociali poiché essa contribuirà a rafforzare la tutela delle persone con disabilità nell’ordinamento italiano, consolidando l’idea che i requisiti per l’integrazione sociale devono essere proporzionati e adattabili alle condizioni individuali.

Inoltre essa rappresenta un precedente significativo per future controversie in materia di inclusione sociale e diritti delle persone con disabilità.

In conclusione, la sentenza n. 25/2025 della Corte Costituzionale, segna finalmente un punto di svolta nella normativa sulla cittadinanza italiana, correggendo una lacuna che penalizzava le persone con disabilità.

L’introduzione di un’esenzione dal requisito linguistico per chi è impossibilitato ad apprendere la lingua italiana rappresenta un importante passo avanti nel garantire un accesso equo e non discriminatorio alla cittadinanza italiana.

 

Approfondimento a cura del Centro Studi Giuridici HandyLex

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