Compartecipazione delle persone non autosufficienti e disabili gravi: due sentenze della Corte Costituzionale
Con due sentenze rilasciate lo scorso 19 dicembre la Corte Costituzionale, massima autorità giudiziaria nazionale, ha ridisegnato l’assetto del sistema di Welfare nazionale.
L’enfasi di questa affermazione non pare fuori luogo, atteso che seppur non direttamente incisa la Legge quadro in materia, la l. n. 328/2000, è risultato stravolto, rispetto alle indicazioni che promanavano dalla costante giurisprudenza amministrativa di prime cure e d’appello, il rapporto economico tra l’Amministrazione e l’Utenza, che trova, allo stato, il proprio riferimento normativo nel d.lgs. n. 109/1998 così come modificato dal d.lgs. n. 130/2000.
Entrambe le pronunce di seguito brevemente disaminate assumono, infatti, straordinaria importanza nel panorama, invero intricato, del tema della compartecipazione al costo dell’Utenza ultrasessantacinquenne non autosufficiente e di quella gravemente disabile ex art. 3 co. 3 della l. n. 104/1992.
Per anni si sono registrate pronunce del Giudice amministrativo che, interpretando in modo rigoroso ed ortodosso il disposto del famigerato art. 3 co. 2-ter del d.lgs. n. 109/1998, hanno inteso valorizzare la capacità economica del singolo Utente (il c.d. ISEE individuale) per tutti quei servizi, socioassistenziali e sociosanitari, destinati alle tipologie di Utenza dianzi richiamate.
Ormai ben radicato nella giurisprudenza amministrativa era, da un lato, il riconoscimento della competenza regolamentare degli enti erogatori (quali, ad esempio, il Comune) in sede di fissazione dei requisiti per accedere alle prestazioni o alle agevolazioni economiche, dall’altro l’intangibilità dei c.d. “livelli essenziali di assistenza” (si vedano, tra le ultimissime, Cons. St., sez. III, 21 dicembre 2012, n. 6674; id., 14 dicembre 2012, sent. n. 6431; id., 16 novembre 2012, sent. n. 5782; id., 10 luglio 2012, sent. n. 4071; id., 10 luglio 2012, sent. n. 4077; id., 10 luglio 2012, sent. n. 4085; T.A.R. Lombardia – Milano, sez. III, 17 dicembre 2012, sent. n. 3056; T.A.R. Veneto, sez. III, 04 dicembre 2012, sent. n. 1492; T.A.R. Lazio – Roma, sez. II, 13 novembre 2012, sent. n. 9311; T.A.R. Campania – Napoli, sez. I, 15 novembre 2012, sent. n. 4604), tra i quali, a partire dall’ormai celebre ordinanza Cons. St., sez. V, 14 settembre 2009, n. 4582, vi rientrava senza dubbio il principio di cui al surrichiamato art. 3 co. 2-ter del d.lgs. n. 109/1998, rinvenendosi in materia una posizione giurisprudenziale che ne ha sempre valorizzato l’immediata applicabilità, riconoscendone una portata (tendenzialmente) assoluta e incondizionata.
In sostanza, detta disposizione poteva non considerarsi come espressiva di un principio assoluto e incondizionato, ma si doveva comunque prevedere un’adeguata distinzione tra la posizione dei disabili gravi e degli anziani non autosufficienti e quella degli altri Utenti, nel senso, ai fini della compartecipazione alla contribuzione di determinate spese, di valorizzare la posizione del solo assistito, prevedendosi una distinzione a favore di un diverso e più favorevole trattamento dei “casi più gravi”.
Tra le varie finalità, pari ordinate, previste da quella disposizione, si posizionava, invero in termini certamente ristretti, l’applicazione del principio di valorizzazione della capacità economica del singolo a fronte della mancata emanazione del d.P.C.M. attuativo colà previsto, in assenza del quale si demandava all’Amministrazione di regolamentare interamente i relativi rapporti.
La permanenza di un generico dovere di solidarietà e di assistenza, da parte dei “congiunti” di disabili gravi o degli anziani non autosufficienti, meglio sarebbe dire “del nucleo familiare rilevante a fini ISEE”, non veniva meno, ma risultava puntualmente mediata dalla necessaria applicazione della regola di favore dell’art. 3 co. 2-ter del d.lgs. n. 109/1998.
Ecco allora, con riferimento ai servizi residenziali, che poteva, al più, esser pensata una compartecipazione del nucleo familiare nelle attività a carico della famiglia, nei periodi o momenti in cui l’assistito era loro affidato, e da definire anche con gli enti gestori, con l’esclusione della contribuzione familiare alla spesa per i programmi di assistenza propriamente detti.
La ratio del principio di cui all’art. 3 co. 2-ter del d.lgs. n. 109/1998 è stata interpretata alla luce della restante disciplina recata dal medesimo decreto legislativo, ispirato al principio di solidarietà familiare e dunque nel diretto e costante bilanciamento tra le due fondamentali indicazioni che esso contiene, da contemperarsi anche nel caso di diretta applicazione da parte delle Regioni e degli Enti locali nel complessivo quadro normativo.
Il dubbio della necessaria ricerca di un punto di maggior equilibrio economico-finanziario della norma, ne pareva minare, quantomeno sotto il profilo concettuale, l’immediata operatività, ma detta questione è stata superata in via pretoria, all’esito di copiosi pronunciamenti che, trasversalmente, anche in senso geografico, l’hanno risolta, evidenziando come l’art. 3 co. 2-ter del d.lgs. n. 109/1998 si presentava sufficientemente chiaro e preciso, al punto da non necessitare, per la sua applicazione, l’emanazione del d.P.C.M. attuativo.
Nel quadro testé delineato, certamente sedimentato nel recente passato, irrompe la sentenza Corte Costituzionale, 19 dicembre 2012, n. 296, rilasciata all’esito del giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 14 co. 2 lett. c) della Legge della Regione Toscana 18 dicembre 2008, n. 66, promosso dal Tribunale amministrativo locale.
Questi ha sollevato, in riferimento all’art. 117 co. 2 lett. m) della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo citato nella parte in cui, nel caso di prestazioni di tipo residenziale a favore di persone disabili “la quota di compartecipazione dovuta dalla persona assistita ultrasessantacinquenne è calcolata tenendo conto altresì della situazione reddituale e patrimoniale del coniuge e dei parenti in linea retta entro il primo grado”.
Il Giudice remittente aveva ritenuto che tale disposizione violasse il dettato costituzionale, siccome contrastante con il citato art. 3 co. 2-ter del d.lgs. n. 109/1998 che, imponendo di evidenziare riguardo alle modalità di compartecipazione al costo, la situazione economica del solo assistito, nei casi (s)oggettivamente contemplati, integrava, per costante giurisprudenza, un livello essenziale delle prestazioni concernenti diritti civili e sociali che devono essere garantiti, in maniera uniforme, su tutto il territorio nazionale.
Un ulteriore interessante aspetto della vicenda di merito, era costituito dalla previsione, nella locale regolamentazione, della compartecipazione alla spesa (per il 20 %), da parte del figlio dell’assistita, siccome soggetto tenuto agli alimenti ex art. 433 c.c., mentre, è noto, l’art. 2 co. 6 del d.lgs. n. 109/1998 prevede che tale azione è inibita all’Amministrazione, ma sollecitabile solo dal soggetto che versa in stato di bisogno.
Di qui il lamentato contrasto delle previsioni della l.r. Toscana n. 66/2008, nella parte in cui prevedeva che la quota di compartecipazione dovuta dalla persona assistita ultrasessantacinquenne fosse calcolata tenendo conto altresì della situazione reddituale e patrimoniale del coniuge e dei parenti in linea retta entro il primo grado.
Questa previsione, invero, si distingue da altre disposizioni regionali, come quella prevista dall’art. 8 co. 1 della Legge della Regione Lombardia 13 marzo 2008, n. 3, allora vigente, poi modificato con l.r. 24 febbraio 2012, n. 2, a mente del quale era prevista, in modo piuttosto criptico, la partecipazione dei soggetti “civilmente obbligati”, comunque ritenuta astrattamente compatibile con la norma statale indicata (il d.lgs. n. 109/1998), siccome introducente criteri differenziati e aggiuntivi di selezione dei destinatari degli interventi così come previsto dagli artt. 1 e 3 del medesimo d.lgs. n. 109/1998.
Era in gioco, a detta del Giudice remittente, la garanzia costituzionale dei livelli essenziali delle prestazioni, preordinata ad assicurare un nucleo essenziale di diritti in modo uniforme su tutto il territorio nazionale, essendo ammesse differenziazioni, purché “in melius”, nei diversi contesti regionali.
Nel giudizio davanti alla Corte Costituzionale, la Regione Toscana ha sostenuto la tesi per cui giacché la materia dei servizi sociali è ormai attribuita alla competenza residuale delle Regioni, ferma restando la competenza statale nella definizione dei livelli essenziali delle prestazioni, solo nell’art. 22 della l. n. 328/2000 il Legislatore ha individuato gli interventi da considerare livelli essenziali, ma successivamente a tale disposizione non erano intervenute altre disposizioni statali che avessero definito in concreto le modalità di partecipazione alla spesa sociale da parte dei Cittadini destinatari delle prestazioni.
La Regione ha ritenuto, dunque, che tale profilo non poteva rientrare nell’ambito dei livelli essenziali, comunque da adottarsi all’esito di una concertazione tra Stato, Regioni ed enti locali, ma atteneva alle loro modalità organizzative, rimesse alla competenza regionale residuale, oltre al fatto che, in ogni caso, l’intervento legislativo statale nella determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni sociali avrebbe dovuto contenere l’indicazione delle risorse economiche necessarie a finanziarli, pena il riconoscimento di diritti poi non concretamente riconoscibili per mancata copertura economica (classica situazione italiana, si veda l’annoso contenzioso sulla dotazione dell’insegnante di sostegno e/o assistente alla persona nelle scuole, anche paritarie, di ogni ordine e grado).
Di qui, secondo la tesi regionale, l’inapplicabilità dell’art. 3 co. 2-ter del d.lgs. n. 109/1998, nella perdurante assenza del d.P.C.M. previsto dalla stessa norma per la sua attuazione, e la giustificazione del fatto che le Regioni, a fronte dell’inerzia dello Stato, che non aveva mai provveduto alla definizione ed al finanziamento dei livelli essenziali delle prestazioni sociali, hanno diffusamente, e forzatamente, dovuto prevedere il coinvolgimento del nucleo familiare dell’Utenza (nel caso di specie, anziano non autosufficiente, ricoverato in struttura residenziale), nel pagamento delle relative rette, pena l’insostenibilità finanziaria dell’intervento assistenziale complessivo.
L’adita Corte Costituzionale ha ritenuto che la questione, sollevata nei suindicati termini, non fosse fondata.
In particolare, ha rigettato l’ipotesi interpretativa, sostenuta financo in numerose pronunce del Consiglio di Stato, secondo la quale la disposizione dell’art. 3 co. 2-ter del d.lgs. n. 109/1998 integra, anche in assenza del previsto d.P.C.M., un livello essenziale delle prestazioni relative ai servizi sociali a favore degli anziani non autosufficienti e delle altre categorie protette colà indicate.
La Corte giunge a questa considerazione muovendo dall’analisi delle due finalità ricavabili dal medesimo art. 3 co. 2-ter del d.lgs. n. 109/1998: trattasi, da un lato, dell’evidenziazione della situazione economica del solo assistito, dall’altro, della finalità di favorire la permanenza dell’assistito presso il nucleo familiare di appartenenza, e giunge alla conclusione che “le due descritte finalità possono, almeno parzialmente, divergere tra loro, dal momento che la previsione di una compartecipazione ai costi delle prestazioni di tipo residenziale, da parte dei familiari, può costituire un incentivo indiretto che contribuisce a favorire la permanenza dell’anziano presso il proprio nucleo familiare”.
In questo riposa, ad avviso della Corte, il vero scopo del (mancato) decreto attuativo, che avrebbe dovuto effettuare la scelta tra le modalità per perseguire le prefate diverse finalità indicate, “specificando le prestazioni per le quali dovessero valere i principi indicati dallo stesso art. 3, comma 2 ter, <…> operando le scelte coerenti con le indicate finalità, idonee ad individuare «i limiti» entro i quali le norme del decreto legislativo n. 109 del 2009 (1998, n.d.r.) avrebbero dovuto applicarsi”.
Ancora, secondo la Corte, il decreto attuativo “avrebbe dovuto procedere all’individuazione delle prestazioni sociali comprese «nell’ambito di percorsi assistenziali integrati di natura sociosanitaria, erogate a domicilio o in ambiente residenziale, a ciclo diurno o continuativo», nonché a meglio definire, sotto un profilo soggettivo, le molteplici categorie dei destinatari delle prestazioni”.
Di qui, a detta della Corte, il fatto che la qualifica di livello essenziale delle prestazioni in materia di assistenza sociale dell’art. 3 co. 2-ter del d.lgs. n. 109/1998, così come sancita dalla costante giurisprudenza amministrativa, non trova conferma dall’esame letterale di tale disposizione, “che appare invece una norma contenente principi e criteri direttivi da attuarsi nel successivo decretoallo scopo di perseguire diverse finalità, tra le quali quella di «evidenziare», in determinati casi, la situazione economica del solo assistito ai fini del calcolo dell’ISEE”.
Ancor più incisivamente la Corte afferma che “Nel quadro descritto, non può neppure ritenersi che il perseguimento di tale finalità implichi necessariamente che la “evidenziazione” della situazione del solo assistito ai fini del calcolo dell’ISEE, avrebbe dovuto realizzarsi in termini identici per tutte le prestazioni e per tutte le categorie cui si è fatto riferimento”.
Ecco allora che la mancata individuazione specifica delle prestazioni da erogare, e in particolare gli standards strutturali e qualitativi di prestazione, hanno depotenziato l’art. 3 co. 2-ter del d.lgs. n. 109/1998, giacché detta disposizione “risulta carente proprio nell’individuazione specifica delle prestazioni da erogare, limitandosi a rinviare ad un successivo decreto le scelte in ordine al perseguimento delle finalità sopra indicate, tra le quali quella di «evidenziare», per determinate prestazioni, la situazione economica del solo assistito”.
La Corte, rileva altresì che il fatto che lo Stato non ha organicamente esercitato la propria competenza ai fini dell’individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni nella materia dei servizi sociali, risulta confermato dall’esame dell’evoluzione della legislazione in materia nell’ultimo quindicennio, periodo nel quale, e in particolare dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, “tutte le attività, come quella in esame, “relative alla predisposizione ed erogazione di servizi, gratuiti e a pagamento, o di prestazioni economiche destinate a rimuovere e superare le situazioni di bisogno e di difficoltà che la persona umana incontra nel corso della sua vita, escluse soltanto quelle assicurate dal sistema previdenziale e da quello sanitario”, rientrano nel più generale ambito dei servizi sociali attribuito alla competenza legislativa residuale delle Regioni» (sentenze n. 121 del 2010, n. 124 del 2009, e n. 287 del 2004)”.
Ed è stata proprio la riforma del Titolo V, a detta della Corte, che ha impedito al Legislatore nazionale l’adozione degli strumenti di programmazione previsti dalla l. n. 328/2000, realizzandosi un assetto normativo che, attualmente, “preclude allo Stato di fissare i principi fondamentali della materia, e di indicare gli obiettivi della programmazione, come era invece previsto dalla legge n. 328 del 2000, approvata in una fase nella quale la materia in esame rientrava tra quelle di competenza concorrente tra Stato e Regioni”.
Ciò che poi ha trovato conferma nell’art. 46 co. 3 della l. 27 dicembre 2002, n. 289 (la c.d. legge finanziaria 2003), che ha di fatto riformato la regolamentazione prevista dalla l. n. 328/2000 e, indirettamente, nelle progressive riduzioni degli stanziamenti relativi al Fondo per le non autosufficienze “dal momento che la natura della nuova competenza regionale, di tipo residuale e non più concorrente, risulta incompatibile con la previsione di un piano statale nazionale e con l’indicazione da parte dello Stato dei principi e degli obiettivi della politica sociale, nonché delle «caratteristiche e dei requisiti delle prestazioni sociali comprese nei livelli essenziali» (art. 18, comma 3, lettera a) della legge n. 328 del 2000)”.
Di qui la legittimità di quelle normative regionali, come appunto la l.r. Toscana n. 66/2008 e la l.r. Emilia-Romagna n. 2/2003, che, “in via transitoria, e in attesa della definizione dei livelli essenziali di assistenza sociale (LIVEAS) e del loro relativo finanziamento”, hanno previsto forme di compartecipazione da parte dell’Utenza, ai costi delle prestazioni non coperti dai livelli essenziali di assistenza sanitaria, tenendo conto, ma potendovi derogare, dei principi in materia di indicatore della situazione economica equivalente (ISEE) di cui al d.lgs. n. 109/1998.
Di qui l’infondatezza della questione sollevata, “dal momento che deve escludersi che la norma di cui all’art. 3, comma 2 ter, del decreto legislativo n. 109 del 1998, costituisca un livello essenziale delle prestazioni concernenti diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, idoneo a vincolare le Regioni ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., nella materia di competenza legislativa residuale relativa ai servizi sociali”.
Dunque?
L’attesa pronuncia ha contenuti di assoluta importanza, di cui è necessario individuare esattamente la portata.
Personalmente, sono sempre stato molto critico con le Legislazioni regionali che avevano introdotto criteri difformi dalle disposizioni del d.lgs. n. 109/1998, e questa personale convinzione era frutto della costante giurisprudenza amministrativa di prime cure e del Consiglio di Stato.
Chiaro che, ora, s’impongono anche altre considerazioni.
La Corte Costituzionale certamente lascia spazio alla legislazione regionale (e, in un certo senso, alla regolamentazione locale), ma, pur disattendendo la costante lettura dell’art. 3 co. 2-ter del d.lgs. n. 109/1998 operata dal Consiglio di Stato, ribadisce che ogni forma di regolamentazione della compartecipazione economica dell’Utenza al costo dei servizi deve essere operata tenendo conto dei principi di cui al vigente d.lgs. n. 109/1998.
Principi che, è bene evidenziarlo sin da subito, impediscono anche ora, e a maggior ragione alla luce della sentenza della Corte qui in commento, un disinvolto, antistorico e grossolano, richiamo agli obblighi dei c.d. “tenuti agli alimenti” ex art. 433 c.c. nei confronti dell’Amministrazione, che la Corte richiama non per farne rivivere l’operatività in sede di pagamento delle rette, ma, anzi, per ribadire l’illegittima sovrapposizione tra la disciplina civilistica e quella amministrativa, in senso stretto.
Se una solidarietà “economica” familiare può, a questo punto, esser valorizzata, ciò è possibile nei limiti in cui la normativa regionale lo consente, se lo consente (…), e sempre, al più, con riferimento al nucleo familiare rilevante ai fini ISEE, e non certamente pretendendo di ricomprendervi soggetti che con quel nucleo familiare, normativamente individuato, giusti i decreti attuativi del d.lgs. n. 109/1998, nulla hanno a che vedere.
È poi evidente che l’Amministrazione potrà richiedere un livello compartecipativo commisurato (rectius: adeguato) alla capacità economica del “soggetto” (individuale o familiare) inciso, giacché a fronte di ISEE, individuali o meno, di modesto valore, una richiesta compartecipativa che supera un limite della ragionevolezza e dell’equità, non solo integrerebbe quel vizio che i giuristi chiamano “eccesso di potere”, ma legittimerebbe una domanda che sarebbe a quel punto rivolta ai Servizi Sociali tutti: si sta operando per far assistenza sociale, o si è divenuti una succursale della ragioneria dell’Ente?
In difetto di una Legge regionale che disponga puntualmente in merito, non è sempre facile prefigurare, con assoluta esattezza, un equo prelievo compartecipativo, appunto per quanto testé evidenziato.
Effetti della sentenza sui giudizi pendenti e conclusi
Riguardo ai giudizi pendenti, le parti (ordinariamente, le Amministrazioni) interessate a far rilevare al Giudice a quo l’interpretazione che la Corte ha offerto all’art. 3 co. 2-ter del d.lgs. n. 109/1998, hanno ora ampio margine per ottenere una pronuncia a sé favorevole, soprattutto allorquando la domanda che radica il giudizio volesse ottenere un’applicazione stretta del principio di evidenziazione della capacità economica del singolo in luogo della capacità economica del nucleo familiare rilevante a fini ISEE.
Diversamente, per i giudizi ormai definiti, sui quali è già sceso il giudicato, la pronuncia della Corte non è certamente in grado di rimettere in discussione l’epilogo processuale, giacché l’esaurimento dei mezzi di gravame non consente ulteriori discussioni, trattandosi di diritti ormai quesiti, ovvero limita la reviviscenza del rapporto giudiziario ai soli casi consentiti dalla Legge (v. ad esempio, l’istituto della revocazione).
Quali spazi regolamentari si aprono per la Pubblica Amministrazione
In difetto di certezze riguardo al nuovo decreto ISEE, sul quale si veda oltre, la via della vigile attesa non è disprezzabile, purché essa non si trasformi in colpevole inerzia.
In difetto dell’adozione del nuovo decreto, cui dovrebbero prontamente orientarsi le attività di revisione regolamentare locale, la qui commentata sentenza la Corte Costituzionale apre scenari di sicura applicabilità delle Leggi regionali sul punto; il fatto è che molte Leggi regionali, quando esistenti, fanno un generico rinvio alle disposizioni di cui al d.lgs. n. 109/1998, ovvero all’ISEE, senza dettare le necessarie regole puntuali!
Sono dunque proponibili le seguenti alternative:
a) qualora fosse emanato il nuovo “decreto ISEE”, e fosse mantenuta la previsione in base alla quale detto indicatore integra un livello essenziale delle prestazioni civili e sociali che devono essere garantite in modo uniforme su tutto il territorio nazionale, si giungerebbe all’abrogazione del vigente d.lgs. n. 109/1998, e relativi decreti attuativi, ponendosi, in quel momento, un serio problema di compatibilità delle Leggi regionali sul punto;
b) qualora fosse emanato il nuovo “decreto ISEE”, senza l’esplicita previsione di integrazione di un livello essenziale, risulterebbe comunque abrogato il d.lgs. n. 109/1998, e relativi decreti attuativi, ma sarebbe lasciato spazio alle Regioni di disciplinare, nel dettaglio, la materia, ispirandosi ai contenuti del nuovo decreto;
c) qualora non fosse emanato il nuovo “decreto ISEE”, il d.lgs. n. 109/1998, e i relativi decreti attuativi, resterebbero vigenti, ma dovrebbero essere interpretati secondo le indicazioni fornite dalla Corte e di cui in narrativa, aprendosi quindi spazio a legislazioni regionali che, difformemente dal d.lgs. n. 109/1998, pur ispirandosi a esso quanto ai principi, ben potrebbero prevedere una “indifferenziata” compartecipazione dell’Utenza poggiantesi sull’ISEE familiare, anche per le categorie di soggetti contemplate nel citato art. 3 co. 2-ter del medesimo, prevedendosi deroghe puntuali, laddove ritenute ammissibili.
Purtuttavia le questioni non si intendono qui esaurite.
È noto che, in forza della disposizione di cui all’art. 5 del d.l. 6 dicembre 2011, n. 201 (rubricato Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla l. 22 dicembre 2011, n. 214, è stato previsto che, con d.P.C.M, su proposta del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, si dovesse procedere alla revisione delle “modalità di determinazione e [dei] campi di applicazione dell’indicatore della situazione economica equivalente (ISEE) al fine di: adottare una definizione di reddito disponibile che includa la percezione di somme, anche se esenti da imposizione fiscale, e che tenga conto delle quote di patrimonio e di reddito dei diversi componenti della famiglia nonché dei pesi dei carichi familiari, in particolare dei figli successivi al secondo e di persone disabili a carico; migliorare la capacità selettiva dell’indicatore, valorizzando in misura maggiore la componente patrimoniale sita sia in Italia sia all’estero, al netto del debito residuo per l’acquisto della stessa e tenuto conto delle imposte relative; permettere una differenziazione dell’indicatore per le diverse tipologie di prestazioni”.
Si tratta, in sintesi, del c.d. “nuovo decreto ISEE”.
Il “nuovo” decreto ISEE
È noto che il Presidente del Consiglio esercita le proprie prerogative, (anche) adottando atti assunti nella forma del d.P.C.M., quando ciò la Legge preveda o quando, sussistendo la necessità di porre in essere l’atto, la Legge non preveda altra forma.
In questo caso, il Presidente del Consiglio è titolare di poteri del tipo ministeriale poiché la Legge ha attribuito tali poteri, così qualificati, non a un ministro, ma al Presidente del Consiglio.
Nel nostro caso lo schema di decreto ISEE è stato trasmesso al Consiglio di Stato il quale, sollecitato nell’esercizio della propria funzione consultiva, è stato chiamato a esprimere, sotto il profilo giuridico-amministrativo, il proprio “parere”.
Detta forma di consulenza ha ad oggetto la valutazione dell’azione amministrativa, non solo sotto il profilo della legittimità, ma anche sotto quello del merito, cioè dell’opportunità, della convenienza amministrativa.
È interessante notare come il citato art. 5 del d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, nella definitiva versione, stabilisce che “A far data dai trenta giorni dall’entrata in vigore delle disposizioni di approvazione del nuovo modello di dichiarazione sostitutiva unica concernente le informazioni necessarie per la determinazione dell’ISEE, attuative del decreto di cui al periodo precedente, sono abrogati il decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 109, e il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 7 maggio 1999, n. 221”, vale a dire proprio la tanto “vituperata” norma che disciplina attualmente la compartecipazione al costo dell’utenza ed uno dei relativi decreti attuativi, rubricato Regolamento concernente le modalità attuative e gli ambiti di applicazione dei criteri unificati di valutazione della situazione economica dei soggetti che richiedono prestazioni agevolate, che individua, tra l’altro, la Composizione del nucleo familiare da utilizzarsi in questa sede.
Orbene, devesi rilevare come, alla previsione abrogativa del d.lgs. n. 109/1998 e del d.P.C.M. n. 221/1999, si aggiungeva una previsione (presunta, sia chiaro) di straordinaria importanza all’art. 2 co. 1 della “bozza” di nuovo decreto ISEE, il quale, in base al testo reso noto pochi mesi fa, prevedeva che “L’ISEE è lo strumento di valutazione, attraverso criteri unificati, della situazione economica di coloro che richiedono prestazioni sociali agevolate. L’applicazione dell’indicatore ai fini dell’accesso alle prestazioni sociali agevolate, nonché della definizione del livello di compartecipazione al costo delle medesime, costituisce livello essenziale delle prestazioni, ai sensi dell’articolo 117, lettera m), della Costituzione”.
Quale il significato (potenziale) di detta previsione?
Salvo il caso in cui le Regioni non avessero contestato il nuovo decreto, ritenendolo violativo delle competenze legislative costituzionalmente loro attribuite, nel prossimo futuro, e con riguardo alle “Prestazioni sociali”, alle “Prestazioni sociali agevolate” e alle “Prestazioni agevolate di natura sociosanitaria”, così come definite e individuate nel nuovo decreto, l’applicazione del nuovo ISEE ai fini dell’accesso alle prestazioni sociali agevolate, nonché della definizione del livello di compartecipazione al costo delle medesime, sarebbe risultata doverosa, ammettendosi differenziazioni regionali, purché “in melius” a favore dell’Utenza.
In buona sostanza, lo spazio alla normativa regionale, ora aperto dalla sentenza Corte Costituzionale, 19 dicembre 2012, n. 296, dianzi brevemente commentata, si sarebbe prontamente richiuso, a fronte di un accertata natura di livello essenziale (ex art. 117 co. 2 lett. m) della Costituzione) del nuovo indicatore ISEE, stavolta non inferita in via pretoria ma sancita esplicitamente dal Legislatore, salvo ulteriore attività demolitoria, sempre possibile, ad opera del Giudice delle Leggi.
Senonché, la successiva sentenza, Corte Costituzionale, 19 dicembre 2012, n. 297, ha chiuso la questione (almeno per il momento).
La richiamata possibile impugnazione dell’art. 5 del d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, si è concretata ancor prima dell’emanazione del nuovo decreto, ad opera della Regione Veneto, la quale ha chiesto alla Corte di dichiarare l’illegittimità costituzionale di varie norme del d.l. 6 dicembre 2011, n. 201 per violazione degli artt. 3, 117 co. 3 e 4, 118 co. 1 e 2 e 119 della Costituzione, nonché del “principio di leale collaborazione di cui all’art. 120”, non essendo prevista, ai fini dell’adozione del nuovo decreto, alcuna forma d’intesa con le Regioni o con la Conferenza unificata e neppure essendo menzionata la possibilità per gli enti erogatori di modulare diversamente gli indicatori ISEE.
In tal modo, secondo la Regione Veneto, sarebbero state abbandonate le procedure di leale collaborazione già previste per la revisione dell’ISEE operata nell’anno 2000, giacché la norma impugnata, prevedendo la modificazione unilaterale da parte dello Stato della determinazione dell’ISEE, avrebbe ristretto senza giustificazione gli spazi di autonomia regionale ora riconosciuto dal vigente Titolo V della Costituzione.
L’art. 5 del d.l. 6 dicembre 2011, n. 201 avrebbe, secondo quanto lamentato dalla Regione Veneto, violato altre norme costituzionali, in quanto, incidendo fortemente nell’esercizio di funzioni ascrivibili a materie assegnate alle competenze legislative ed amministrative delle Regioni, anche di tipo “residuale”, avrebbe richiesto il coinvolgimento delle Regioni attraverso la previa intesa con il Governo, secondo il principio di leale collaborazione (così come avviene nella determinazione dei livelli essenziali di assistenza sanitaria – LEA e come sottolineato in generale dalla giurisprudenza della stessa Corte Costituzionale), ed in quanto assegnavano ad un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri la forza di modificare, genericamente, la disciplina stabilita da fonti primarie, perciò sovraordinate ad esso.
Da ultimo, la Regione Veneto, ribadiva per altra via la grave violazione del principio di leale collaborazione tra i diversi livelli di Governo, stante la stretta interconnessione che esiste tra le politiche regionali in materia sociale e socio assistenziale e l’utilizzo dell’ISEE nazionale quale indicatore/misuratore di capacità economica dell’Utenza a fini compartecipativi.
Preliminarmente, nota invero assai stonata, la quale, probabilmente, non avrebbe mutato l’esito del giudizio, devesi rilevare che l’Avvocatura generale dello Stato, che rappresentava il resistente Presidente del Consiglio dei ministri, si è costituita in giudizio oltre il termine di Legge (…), il che ha comportato l’inammissibilità della costituzione in giudizio della parte resistente.
La Corte Costituzionale ha ritenuto fondata la prima questione, concernente il primo ed il secondo periodo dell’unico comma dell’art. 5, impugnati per violazione del principio di leale collaborazione in relazione alla mancata previsione della partecipazione della Regione alla modifica dell’ISEE, giungendo a tale conclusione attraverso due passaggi argomentativi: a) l’inquadramento della disciplina dell’ISEE nella competenza esclusiva dello Stato prevista dall’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., in tema di LIVEAS; b) la necessità della collaborazione della Regione nella predisposizione, da parte dello Stato, dei LIVEAS.
Secondo la ricostruzione operata dalla Corte, “la normativa citata (il d.lgs. n. 109/1998 e la l. n. 328/2000, n.d.r.), avendo natura di principio, non ha determinato in concreto le prestazioni integranti i LIVEAS, ma si è limitata ad indicare un metodo di calcolo del reddito da prendere in considerazione, da parte degli enti erogatori, per l’accesso a servizi agevolati, lasciando liberi tali enti di individuare la soglia reddituale e di far ricorso a criteri ulteriori”.
Aggiungendosi a ciò la riforma del Titolo V della Costituzione, che ha assegnato alle Regioni la competenza residuale in materia di “servizi sociali” ovvero di “assistenza e beneficenza pubblica” ovvero ancora di “politiche sociali”, ecco come, in sede di determinazione dei LIVEAS, non si possa, da un lato, escludere che le Regioni e gli Enti locali possano garantire, nell’àmbito delle proprie competenze, livelli ulteriori di tutela, dall’altro, non riconoscere che in forza del successivo art. 46 co. 3 della l. 27 dicembre 2002, n. 289 (la c.d. “legge finanziaria 2003”), tenendo conto della competenza legislativa residuale e non più concorrente delle Regioni in materia di servizi sociali, sia stata introdotta una specifica procedura per la determinazione dei LIVEAS, la quale prevede espressamente l’intesa con la Conferenza unificata “Stato-Regioni”.
È pur vero, secondo la Corte, che il nuovo indicatore del reddito (ISEE) che gli enti erogatori avrebbero dovuto prendere in considerazione per consentire l’accesso a servizi agevolati, implicava la specifica determinazione del livello essenziale di erogazione delle prestazioni medesime, che la Costituzione e la giurisprudenza indicano come rientrante nella competenza esclusiva dello Stato, ma è altrettanto vero che, stante la forte incidenza di quest’operazione normativa sull’esercizio delle competenze legislative ed amministrative delle Regioni, ciò sarebbe stato possibile solo attraverso moduli di leale collaborazione tra Stato e Regione, salva la ricorrenza di ipotesi eccezionali (nella specie ritenuti non sussistenti) in cui la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) non permettesse “da sola, di realizzare utilmente la finalità […] di protezione delle situazioni di estrema debolezza della persona umana”, tanto da legittimare lo Stato a disporre in via diretta le prestazioni assistenziali.
Proprio in ragione di tale impatto sulle competenze residuali delle Regioni e, almeno potenzialmente, sulle finanze locali, chiamate a sopportare l’onere economico di tali servizi, a detta della Corte “la suddetta determinazione dell’ISEE richiede la ricognizione delle situazioni locali e la valutazione di sostenibilità finanziaria, tramite acquisizione di dati di cui gli enti erogatori delle prestazioni dispongono in via prioritaria”.
In base alle argomentazioni, il Giudice delle Leggi ha stabilito che “l’omessa previsione, nella norma impugnata, di una qualsiasi forma di leale collaborazione con le Regioni comporta la fondatezza della questione in esame”.
Con limpida perizia, poi, la Corte scioglie i dubbi circa l’asserita surrettizia delegificazione delle precedenti norme statali sull’ISEE e illegittimità costituzionale dell’art. 5 del d.l. n. 201/2011 per violazione del principio di leale collaborazione per la mancata partecipazione della Regione alla riassegnazione dei risparmi ottenuti dalla modifica dell’ISEE, punti sui quali, stante il rigetto della domanda, non mi soffermo.
In sintesi, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del primo e secondo periodo dell’unico comma dell’art. 5 del decreto-legge n. 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214 del 2011, nella parte in cui non prevedono che il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri ivi menzionato sia emanato “d’intesa con la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281”.
Se il nuovo decreto ISEE fosse stato approvato nei tempi che si prospettavano, e pareva esser davvero questioni di giorni, la portata della pronuncia n. 296/2012, con la quale la Corte ha ridimensionato significativamente l’applicabilità dell’art. 3 co. 2-ter del d.lgs. n. 109/1998, sarebbe stata certamente rilevante, a livello teorico, ma in sostanza molto modesta: avremmo scoperto che quanto affermato negli ultimi anni dalla giurisprudenza amministrativa era di ritenersi scorretto, ma ci saremmo dovuti confrontare con un “nuovo decreto ISEE” che, nel testo sinora conosciuto, ne faceva rivivere, (in)direttamente, la valenza di “livello essenziale” e avrebbe pressoché chiuso gli spazi ad una regionalizzazione del tema della compartecipazione.
Il vizio procedurale rilevato dalla Corte nella prefata sentenza n. 297/2012, sussistendo l’evidente incidenza della futura disciplina normativa sulle competenze, normative ed economiche, regionali, ha sparigliato le carte, atteso che, allo stato, pare sostanzialmente inconfigurabile l’adozione, in tempi brevi, di un nuovo decreto ISEE, che comunque dovrà prevedere un passaggio, che è da prefigurare assai contrastato, nella surrichiamata Conferenza Unificata.
Sino ad allora, quid iuris?
Da un lato pare esser ritornati al 1998, e dunque a un testo del d.lgs. n. 109/1998 che non prevede la modifica intercorsa nel 2000 e, quindi, la regola prevista dal famigerato art. 3 co. 2-ter: pare proprio amplificarsi la portata dell’utilizzo dell’ISEE familiare in luogo di quello individuale, ferma restando l’inconfigurabilità di moduli compartecipativi poggiantesi sulla disciplina alimentare ex art. 433 e ss. del Codice civile.
Dall’altro, invero, è riconosciuta, allo stato e fino ad adozione di un nuovo decreto ISEE, la legittimazione della regionalizzazione/localizzazione delle regole compartecipative, fermo restando il rispetto dei principi rinvenibili a livello sovranazionale dalla Convenzione di New York sui diritti delle Persone con disabilità, ratificata con l. n. 18/2009 e, a livello nazionale, nei doveri di solidarietà sociale affermati in Costituzione dagli artt. 2, 3, 38, 53, oltre a quelli che promanano dalla norma “di dettaglio” di cui al medesimo d.lgs. n. 109/1998 e dalla l. n. 328/2000.
E che la citata Convenzione, con particolare riferimento alle Persone disabili, non costituisca fonte secondaria, è assai evidente, poiché la valorizzazione della Persona disabile come persona autonoma, e non solo come componente di un particolare nucleo familiare, è principio immanente al nostro Ordinamento, che nemmeno la pur autorevolissima attività della Corte Costituzionale può derogare.
Sul punto è sufficiente ricordare che l’art. 3 della Convenzione, dopo avere considerato nel preambolo, tra l’altro, che “la maggior parte delle persone con disabilità vive in condizioni di povertà”, con conseguente “necessità di affrontare l’impatto negativo della povertà sulle persone con disabilità”, individua come principi generali “il rispetto per la dignità intrinseca, l’autonomia individuale, compresa la libertà di compiere le proprie scelte, e l’indipendenza delle persone” con disabilità.
In tale contesto è significativo che, in relazione al diritto alla salute delle persone disabili, l’art. 25 stabilisca che “Gli Stati Parti adottano tutte le misure adeguate a garantire loro l’accesso a servizi sanitari che tengano conto delle specifiche differenze di genere, inclusi i servizi di riabilitazione. In particolare, gli Stati Parti devono: (a) fornire alle persone con disabilità servizi sanitari gratuiti o a costi accessibili, che coprano la stessa varietà e che siano della stessa qualità dei servizi e programmi sanitari forniti alle altre persone, compresi i servizi sanitari nella sfera della salute sessuale e riproduttiva e i programmi di salute pubblica destinati alla popolazione”.
Ecco allora che anche per il tramite della Convenzione, così come ratificata dallo Stato italiano, s’impone l’adozione di regole che attuino il dovere di solidarietà nei confronti delle Persone con disabilità, in linea con i principi costituzionali di uguaglianza e di tutela della dignità della Persona, che nel settore specifico rendono comunque corretto valorizzare il disabile di per sé, come soggetto autonomo, a prescindere dal contesto familiare in cui è collocato, anche se ciò può comportare un bilanciamento di interessi che concreta un (anche solo parziale) aggravio economico per le Amministrazioni: in una parola, “fare” servizio sociale ben può significare erogare un servizio che non sia “a costo zero” per l’Amministrazione.
A ciò aggiungasi, quale diretto corollario, invero per nulla residuale, una previsione di livello compartecipativo coerente ed equa in relazione alle capacità economiche dell’Utenza, intesa in senso lato, non potendosi ritenere ammissibile una surrettizia negazione di servizi dovuta all’insostenibilità di una (troppo) elevata richiesta compartecipativa, potenzialmente creante, in quel caso, nuove povertà, cui peraltro poi fare fronte a titolo assistenziale.
Come sempre, mi rifaccio al dettato normativo, e come sempre, pragmaticamente, lo leggo come interpretato dalla giurisprudenza, in particolare delle Corti superiori, della cui autorevolezza nessun “manovale” del diritto è autorizzato a dubitare.
Ancora, preme rilevare come mentre ci si è “affannati” nel far rilevare la mancanza del decreto attuativo dell’art. 3 co. 2-ter del d.lgs. n. 109/1998, sul quale, a colmare il vuoto interpretativo, è intervenuta la giurisprudenza, con tutt’altra decisione si è proceduto alla ricerca di “chi” ha (scientemente?) evitato, successivamente alla riforma del Titolo V della Costituzione, di procedere all’approvazione dei LIVEAS…
Che le Regioni ora lamentino la mancata previsione di un loro coinvolgimento nella definizione del “nuovo ISEE”, e che questa censura sia stata fatta propria dalla Corte, è evidente, e la sentenza n. 297/2012 ne è la conferma, ma un quesito deve sorgere spontaneo: perché mai le stesse Regioni, che ora rivendicano il loro (giusto) necessario coinvolgimento nella definizione del nuovo ISEE, non hanno mai provveduto, una volta traslate le competenze a livello costituzionale, quindi fin dal 2001, a (contribuire a) definire i LIVEAS?
È tutto sommato semplice tacciare il Governo centrale di non aver voluto/potuto provvedere all’emanazione del d.P.C.M. attuativo dell’art. 3 co. 2-ter del d.lgs. n. 109/1998, ma le Regioni hanno fatto quanto di loro spettanza?
Qualche (grosso) dubbio rimane.
Così come rimane qualche grosso dubbio che la mancata emanazione dei LIVEAS sia anche frutto, almeno in parte, del fatto che, in realtà, nemmeno sulla corretta applicazione dei LEA sanitari si possa essere certi.
Le Amministrazioni locali potrebbero, per mera curiosità (si fa per dire, giacché rilevante sotto il profilo erariale…) procedere a una verifica in tal senso riguardo alla suddivisione, tra “sanità” e “sociale”, dei costi concretamente sostenuti per l’erogazione delle prestazioni sociosanitarie, verificando se le percentuali stabilite dalla Legge (faccio qui riferimento ai dd.P.C.M. 14 febbraio 2001 e 29 novembre 2001, che definiscono la “galassia” LEA), sono effettivamente e rigorosamente rispettate dalle Regioni (con riferimento quindi alla quota sanitaria): verifica all’esito della quale, “conti alla mano”, è tutt’altro che infrequente imbattersi in particolari sorprese…
ISEE individuale o familiare che sia, quest’ultimo aspetto resta tutt’ora impregiudicato e ben poco esplorato, a livello giudiziale, per ragioni che lascio immaginare ai Lettori.
Un’ultima nota “di colore”, che interessa tutti i Cittadini/Contribuenti, mi pare doverosa: recentissimamente numerosi Tribunali Amministrativi Regionali hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale riferentesi al d.l. 31 maggio 2010, n. 78 (rubricato Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dalla l. 30 luglio 2010, n. 122, il quale, per i magistrati, così come per tutte le altre categorie del personale non contrattualizzato, avrebbe introdotto un “blocco” dei “meccanismi di adeguamento retributivo” sia la riduzione di una “speciale indennità” per il personale di magistratura, ciò che contrasterebbe con l’art. 104 co. 1 della Costituzione, in quanto, rappresentando il c.d. adeguamento automatico un elemento intrinseco della struttura delle retribuzioni dei magistrati, diretto alla “attuazione del precetto costituzionale dell’indipendenza”, la misura adottata violerebbe il principio in virtù del quale il trattamento economico dei magistrati non sarebbe “nella libera disponibilità del potere legislativo” e dovrebbe non soltanto essere “adeguato” alla quantità e qualità del lavoro prestato (ex art. 36 della Costituzione), ma anche va “certo e costante, e in generale non soggetto a decurtazioni (tanto più se periodiche o ricorrenti)”.
L’automatismo legale del trattamento retributivo dei magistrati si porrebbe quindi “come guarentigia idonea a garantire il precetto costituzionale dell’autonomia ed indipendenza dei giudici, valore che deve essere salvaguardato anche sul piano economico”.
Trattasi, per farla breve, del taglio del trattamento economico complessivo oltre i 90.000 euro ed oltre i 150.000 euro (annui, ovviamente).
Al di là delle questioni inerenti la natura tributaria del prelievo, che colpirebbe solamente la categoria dei dipendenti pubblici (nel cui novero rientrano i magistrati), in contrasto con il principio della “universalità della imposizione”, si taccia l’imposta di esser discriminatoria, sia in relazione all’amplissima categoria dei “cittadini”, rispetto alla quale i dipendenti pubblici sarebbero discriminati ratione status a parità di capacità economica, sia in relazione alla categoria più ristretta dei “lavoratori”, risultando i dipendenti pubblici discriminati rispetto ai dipendenti privati.
Con la propria sentenza 11 ottobre 2012, n. 223, la Corte Costituzionale ha ritenuto fondate le sollevate censure, giacché l’indipendenza degli organi giurisdizionali si realizza anche mediante “l’apprestamento di garanzie circa lo status dei componenti nelle sue varie articolazioni, concernenti, fra l’altro, oltre alla progressione in carriera, anche il trattamento economico”, che si realizza mediante un aumento periodico delle retribuzioni, assicurato per Legge, sulla base di un meccanismo che costituisce un “elemento intrinseco della struttura delle retribuzioni” la cui ratio consiste nella “attuazione del precetto costituzionale dell’indipendenza dei magistrati, che va salvaguardato anche sotto il profilo economico (…) evitando tra l’altro che essi siano soggetti a periodiche rivendicazioni nei confronti di altri poteri”.
Pur riconoscendo che, in via di principio, “il meccanismo di adeguamento delle retribuzioni dei magistrati può, dunque, a certe condizioni essere sottoposto per legge a limitazioni, in particolare quando gli interventi che incidono su di esso siano collocati in un quadro di analoghi sacrifici imposti sia al pubblico impiego”, la Corte ha rinvenuto che, nel caso di specie, i limiti tracciati dalla propria giurisprudenza risultavano irragionevolmente oltrepassati dal Legislatore.
Non è il caso di dilungarsi troppo sulla natura tributaria del prelievo, incidente su retribuzioni che toccano i livelli quantitativi citati, né sull’indiscutibile precisione con la quale la Corte ha statuito sul punto, ma, dopo questa pronuncia, vien da fare un’amara constatazione: anche in tempi come quelli correnti, il nostro assetto normativo non solo non ammette che, per alcuni, si metta in discussione un adeguamento automatico delle retribuzioni, meccanismo che è stato cassato praticamente per tutti i Lavoratori, ma ciò è inammissibile, per i motivi ampiamente disaminati dalla Corte, anche verso chi, bontà sua, gode di retribuzioni annue come quelle suindicate.
E ciò in quanto, nel caso di specie, deve essere garantita, a dispetto di qualsiasi sostenibilità finanziaria, l’autonomia e l’indipendenza della Magistratura.
Pur se questi ultimi costituiscono beni indiscutibilmente intangibili, per i quali, in uno Stato di Diritto, può anche valer la pena “immolarsi”, in senso figurato, vi è da chiedersi: quando si tratta di Persone con grave disabilità e non autosufficienti, il diritto all’indipendenza (di vita!) non è costituzionalmente/normativamente da garantirsi? Dunque, il famoso “limite delle risorse disponibili” vale solamente per le Amministrazioni e per certe categorie di Cittadini particolarmente svantaggiati?
Ai cortesi Lettori, in relazione anche alla diversa visuale operativa e attività professionale, ogni ulteriore considerazione riguardo l’impatto delle pronunce della Corte.
27 dicembre 2012
Consulta