Fondo per la non autosufficienza: Proposta di legge
In queste settimane l’attesa e le considerazioni attorno all’ipotesi della costituzione di un nuovo Fondo per la non autosufficienza divengono sempre più diffuse. La Proposta di Legge (Atti della Camera 5319), che ha come primo firmatario l’onorevole Fioroni ed è stata sottoscritta da parecchi deputati, raccoglie diffusi consensi e qualche critica. Il merito indubbio della Proposta è, comunque, di rilanciare il dibattito sulla non autosufficienza.
L’epigrafe della Proposta, presentata a fine giugno 2012, ne offre intuitivo il contenuto: “Istituzione del Fondo per la non autosufficienza”. Ma vediamo nel concreto i tratti salienti, caratterizzanti e di sicuro interesse: dal Fondo, infatti, dovrebbero derivare nuovi assegni di cura per le persone non autosufficienti.
I principi
I riferimenti di inquadramento normativo sono definiti dal primo articolo: oltre agli articoli 3, 38, 117 della Costituzione, i proponenti richiamano la Legge 8 novembre 2000, n. 328 (cosiddetta Legge quadro dell’assistenza) e la Legge 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge quadro handicap).
Manca qualsiasi riferimento alla Convenzione Onu sui diritti della persone con disabilità e alla norma di ratifica ed esecuzione della stessa (Legge 3 marzo 2009, n. 18).
Non a caso le stesse finalità espresse dalla norma (incrementare il sistema di protezione sociale e di cura per le persone con disabilità e per gli anziani non autosufficienti), nonché le definizioni di “non autosufficienza” e l’assenza al coinvolgimento delle persone con disabilità nella definizione dei “programmi assistenziali”, rendono il testo proposto parecchio scollegato dall’impianto dei principi espressi dalla Convenzione Onu.
La definizione di non autosufficienza
Nella normativa italiana vigente non esiste alcuna definizione giuridica di non autosufficienza. La Proposta di legge vorrebbe compensare tale lacuna formulando la seguente indicazione: “sono considerate non autosufficienti le persone che, per una minorazione singola o plurima, hanno subìto una riduzione dell’autonomia personale, correlata all’età, tale da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione.”
Come si potrà notare la formulazione è pressoché identica a quella fornita per l’handicap grave dalla Legge 104/1992. Tuttavia non è corretto affermare che vi sia una sorta di automatismo tra la già esistente definizione di handicap grave e quella proposta di non autosufficienza. Infatti l’handicap, come definito dalla Legge 104/1992, si riferisce pure ai processi di svantaggio sociale o di emarginazione che invece scompaiono nella nuova indicazione nella quale rimane centrale il carico (bisogno) assistenziale.
Non è tutto. A lato di quella nuova definizione, la Proposta delinea l’ipotesi di interventi differenziati a seconda della “gravità del bisogno” della persone non autosufficienti.
La definizione dei “criteri medico-legali per il riconoscimento del diritto alle prestazioni da parte delle commissioni mediche” viene rimandata ad un successivo Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri.
Appare, quindi, abbastanza evidente che l’inquadramento è, ancora una volta, medico-legale cioè piuttosto lontano dai principi della Convenzione Onu e dai più recenti indicatori fissati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (ICF).
Secondo la logica che discende dalla definizione proposta, a ben vedere, non è la menomazione che è rilevante, quanto piuttosto il carico assistenziale generato come effetto della situazione patologica.
Quella formulazione è priva di capacità di definire l’interazione con le barriere: la non-autosufficienza deriva dalla gravità della menomazione e dai suoi effetti assistenziali diretti.
È inoltre priva di capacità di individuare l’impedimento alla partecipazione e alle pari opportunità: la non-autosufficienza non viene rilevata in funzione della partecipazione. Anzi, l’attenzione è sull’esito più che sulle ragioni che danno come effetto negativo la perdita di abilità.
Con queste premesse gli strumenti di valutazione (medico legale) non saranno utili per la progettazione individualizzata (peraltro non prevista) o per la presa in carico né tanto meno per favorire le pari opportunità, ma solo per calibrare la concessione di supporti economici a situazioni di dipendenza assistenziale.
Il che, data la tanto enfatizzata ratifica della Convenzione ONU, appare francamente fuori tempo.
Chi valuta la non autosufficienza
La valutazione della non autosufficienza verrebbe affidata alla Commissione già prevista per l’accertamento dell’handicap (Legge 104/1992), integrata con un medico INPS, e con un operatore sociale del distretto.
Ne deriverebbe la seguente composizione: tre medici ASL (dipendenti o convenzionati); un operatore sociale; un medico esperto nei casi da valutare; un medico INPS; un medico, rappresentante delle Associazioni di categoria (anch’esso a carico dello Stato). Totale: 6 medici + due operatori sociali.
Avendo previsto l’adozione di specifici criteri medico-legali (diversi da quelli di invalidità civile), la valutazione non è sovrapponibile con quella dell’handicap (Legge 104/1992), né con quella di disabilità (Legge 68/1999), né con quella di invalidità civile.
Con tale disposizione il florilegio delle possibili valutazioni (che sono già numerosissime) si arricchisce di un nuovo dispendioso tassello, peraltro in patente contrasto con lo spirito della recente Legge 4 aprile 2012, n. 35 che mira invece a ridurre la ormai dilagante ondata di momenti accertativi. Il che in aria di spending review è difficilmente comprensibile.
Peraltro quella dell’accertamento non sarebbe l’unica ulteriore incombenza per il Cittadino. Come vedremo più sotto, viene richiesto anche un “passaggio” al distretto socio-sanitario.
La concessione degli assegni di cura
Il testo prevede che “le prestazioni assistenziali sono garantite (…) al titolo della minorazione e sono commisurate al livello di gravità, non sono sostitutive di quelle sanitarie e sono finalizzate alla copertura dei costi di rilevanza sociale dell’assistenza integrata socio-sanitaria, ai sensi dell’atto di indirizzo e coordinamento di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 14 febbraio 2001, (…)”
Tradotto: gli assegni di cura vengono usati per pagare la parte di rilevanza sociale (non sempre di facile individuazione) dell’assistenza socio-sanitaria integrata. Potrebbe agevolmente rientrarvi, ad esempio, l’ADI (l’assistenza domiciliare integrata) o l’assistenza socio-sanitaria in struttura (RSA).
Con tale precisazione è da escludere che gli importi degli assegni di cura, che si aggiungono alle indennità di accompagnamento, finiscano nella disponibilità immediata delle famiglie o delle persone con disabilità.
A confermare questa lettura vi sono altri passaggi del testo che appaiono illuminanti. Sono quelli che riguardano il funzionamento del Fondo.
Viene attribuito alle Regioni il compito di disciplinare le modalità di impiego degli assegni di cura; le modalità e le procedure attraverso le quali, nell’ambito del distretto socio-sanitario, devono essere valutati il bisogno assistenziale e le prestazioni da erogare in favore della persona non autosufficiente; ed infine “le modalità di controllo e di verifica della qualità delle prestazioni, della loro congruità rispetto ai bisogni e delle spese sostenute dai soggetti fruitori o dalle loro famiglie”.
Nella sostanza l’erogazione degli assegni di cura sarà condizionata:
- dalla valutazione medico-legale della non autosufficienza;
- da un programma assistenziale elaborato dal distretto;
- dall’obbligo di spendere gli importi ricevuti in specifiche prestazioni;
- dal controllo formale della congruità delle spese sostenute.
Non è tutto. Lo stesso articolo 4 prevede che le Regioni indichino “i soggetti e le figure professionali accreditati a erogare le prestazioni assistenziali.” Potrebbero essere cooperative, enti non profit, RSA, Centri diurni (…) con ciò che ne deriva in termini di libera scelta da parte dei Cittadini. Non è ben chiaro come verrebbero “accreditate” le badanti: in proprio? solo se integrate in coooperative? Tale impostazione rende questi “assegni di cura” più simili a “buoni di servizio” che a trasferimenti monetari veri e propri, piuttosto lontani, quindi, dagli assegni di cura comunemente intesi e già adottati in alcune Regioni.
Il perché di tale scelta lo si può dedurre dalla lettura della relazione.
“Riflessi importanti vi saranno anche sui livelli occupazionali e sul mondo del lavoro. Già oggi le famiglie si avvalgono generalmente di badanti, che hanno superato quota 750.000, prevalentemente di origine straniera. Un fenomeno in buona parte irregolare e sommerso, destinato ad emergere e ad assumere consistenze ben più significative in presenza di interventi domiciliari, monetari, di azioni di sistema, di una più forte rete di servizi residenziali e semiresidenziali che il Fondo consente di sviluppare.”
Il relatore sembra non interrogarsi sui perché del fenomeno irregolare e sommerso: i costi di assunzione e di copertura contributiva sono spesso insostenibili.
La relazione prosegue: “Secondo il Forum delle associazioni cattoliche nel mondo del lavoro le maggiori entrate fiscali e contributive derivanti dall’emersione di lavoro irregolare possono essere stimate in 280 milioni di euro per ogni 100.000 lavoratori emersi. Si possono, quindi, stimare in circa 1,5 miliardi di euro la contribuzione aggiuntiva previdenziale e assicurativa, nonché le entrate fiscali conseguenti alle nuove occupazione e regolarizzazione di oltre 400.000 badanti.”
In questo caso si preferisce ignorare come i severi decreti sui flussi migratori rappresentano la prima causa per la mancata regolarizzazione delle badanti. Molto spesso non possono essere sottoscritti regolari contratti perchè le badanti – magari in Italia da anni – non sono state ammesse alla regolarizzazione del soggiorno dato l’esiguo numero previsto dai decreti ministeriali.
Forse l’affermazione più illuminate circa i reali beneficiari del Fondo lo si trova nel passaggio della relazione che riguarda “l’effetto sulla finanza locale che verrebbe sgravata da significativi costi assistenziali. Si stima prudenzialmente in circa 700 milioni di euro l’anno il costo delle quote sociali per ricoveri in RSA dei meno abbienti a carico dei comuni, cui va aggiunto il risparmio dovuto al riassorbimento di quote di prestazioni già erogate con risorse locali o di provenienza regionale.”
Con tutta evidenza, per assicurarsi questo è effetto, è necessario “blindare”, come si diceva sopra, le modalità con cui le persone e le famiglie spenderanno i loro assegni di cura.
L’ammontare degli assegni di cura
L’indicazione degli importi degli assegni di cura appare, ad una lettura superficiale, di immediata comprensione. Vengono indicati tre livelli di concessione a seconda della “gravità” del bisogno assistenziale.
La prima prestazione viene indicata “I livello: 490 euro, indennità di accompagnamento” [così nel testo, NdR].
Il secondo livello viene fissato a 900 euro e viene definito assegno di cura.
Al terzo livello l’assegno viene fissato a 1.200 euro.
Gli assegni di cura di secondo e terzo livello sono integrativi dell’indennità di accompagnamento. L’assegno di cura di secondo e terzo livello comprendono già l’indennità di accompagnamente. Ad esempio, un titolare di indennità di accompagnamento a cui venisse riconosciuto l’assegno di secondo livello percepirebbe un importo in più pari a 410 euro (900 – 490= 410).
L’articolo 5 della Proposta afferma con chiarezza che le prestazioni (pensioni, assegno e indennità) riservate agli invalidi, ciechi e sordi civili rimangono a carico dello Stato e pertanto non rientrano nel Fondo. La precisazione doverosa apre ulteriori scenari incerti.
L’apparente linearità riserva non pochi dubbi interpretativi ed applicativi. Non si intende, ad esempio, se il primo livello coincida con l’indennità di accompagnamento (invalidi civili) anche formalmente, oppure se coincida solo in quanto ad importo e si ritenga soddisfatto per chi già è titolare di quella provvidenza.
La prima ipotesi non è sostenibile poiché ai fini del riconoscimento dei requisiti sanitari per l’indennità vigono criteri medico legali differenti dalla non autosufficienza. Nella seconda più probabile ipotesi, la questione si complica enormemente e, vista la stringatezza dell’indicazione pone alcuni dilemmi di non poco conto:
- per le persone disabili con invalidità per lavoro, o per servizio o altro che possono essere non autosufficienti quali sono le regole?
- per le persone alle quali non è stata concessa l’indennità di accompagnamento perché ricoverate a spese dello Stato in RSA quali sono le regole? Viene forse riattivata l’indennità di accompagnamento?
- per gli invalidi del lavoro o per servizio che percepisco indennità ben superiori a quella riservata agli invalidi civili, il riferimento del primo, secondo, e terzo livello tiene conto di questi importi? In caso negativo si crea una sperequazione. In caso positivo non viene riconosciuto alcun aiuto ulteriore.
Ancora più distorta la situazione che si produrrebbe per le persone sorde e non vedenti, per le quali la Proposta prevede che rimangano vigenti le disposizioni rispettivamente per l’indennità di comunicazione e per l’indennità di accompagnamento.
Per i sordi l’indennità di comunicazione è fissata a 245,63 euro, inferiore al primo livello.
Per i ciechi l’indennità di accompagnamento è stabilita a 827,05 euro, quindi superiore al primo livello.
Come viene risolto il loro trattamento rispetto al primo livello (sordi) e al secondo livello (ciechi)?
Chi ha elaborato la Proposta sembra ignorare questi aspetti che condizionano notevolmente la previsione di spesa e possono essere causa di numerosi contenziosi. Fra l’altro la Proposta non indica alcun elemento utile all’attivazione di ricorsi contro gli atti di valutazione e di concessione degli assegni di cura.
A complicare ulteriormente il quadro è la previsione di applicare dei limiti reddituali per la concessione dell’assegno di cura. L’ISEE (indicatore della situazione economica equivalente) viene previsto solo per le persone ultrasessantacinquenni.
In tali casi i proponenti prevedono che l’ISEE (personale o familiare non viene chiarito) venga applicato solo sul secondo e terzo livello dell’assegno di cura, mentre il primo livello (coincidente con una non ben definita indennità di accompagnamento) prescinde dal reddito.
La motivazione di tale scelta la si legge nella relazione alla proposta: gli anziani “affrontano la disabilità per un arco di tempo limitato e che comunque nel corso della loro vita hanno potuto godere di possibilità di guadagno e di programmazione di risorse anche in previsione di una minore autonomia in terza età.”
I proponenti sembrano dimenticare che i progressi in campo sanitario hanno esteso le aspettative di vita anche per persone affette da patologie croniche e degenerative e, quindi, l’arco di tempo nel quale si affronta la disabilità in terza età non sempre è così limitato.
Inoltre non si considerano i casi in cui le persone sono affette da menomazioni invalidanti ben prima dei sessantacinque anni di età.
Nella relazione introduttiva si richiama opportunamente il contrasto, proprio nella terza età, ai ricoveri impropri e alla domiciliarizzazione.
Questa limitazione per gli over 65 sembra, quindi, motivata in modo piuttosto debole e maschera il vero motivo che è di natura economica. Un dato per tutti: i titolari di indennità di accompagnamento sono per il 75% over 65 e per il 50% ultraottantenni.
INPS
Il nuovo Fondo per la non autosufficienza è gestito da INPS. Questo significa che l’Istituto gestirà anche l’effettiva erogazione degli assegni di cura.
Come già detto, l’INPS partecipa anche, con propri medici, alle commissioni di valutazione della non autosufficienza.
Nulla prevede la Proposta di legge circa la convalida degli atti di accertamento sanitario da parte di INPS. Si ritiene che, dato l’attuale impianto della concessione e dell’erogazione delle provvidenze assistenziali, si tratti di una “dimenticanza” degli estensori della Proposta che tuttavia rende più debole l’Istituto negli eventuali inevitabili contenziosi.
La copertura finanziaria
Il finanziamento del Fondo non avviene attraverso la fiscalità ordinaria ma con due nove forme di prelievo.
Il primo consiste nella destinazione dello 0,5% della contribuzione obbligatoria sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti, autonomi e liberi professionisti. Siccome tale prelievo inciderà con tutta evidenza sul costo del lavoro e sulla finanza pubblica il Ministero del lavoro dovrebbe adottare un decreto che individui le misure compensative.
Il secondo prelievo è “un contributo di solidarietà sulle rendite finanziarie e sui grandi patrimoni immobiliari di valore non inferiore a 1,2 milioni di euro.”
La definizione (accattivante sotto il profilo del consenso) è tutt’altro che lineare e comunque molto generica. Si noti che il primo riferimento è alle rendite e non ai patrimoni mobiliari, il che limita l’entità il prelievo. Gli stessi “grandi patrimoni” sono stranamente solo quelli immobiliari.
Al di là del principio sono tutt’altro che chiari i meccanismi di prelievo (ad esempio: il contributo riguarderà la parte eccedente la cifra indicata o sarà riferita all’intero patrimonio? Sarà progressiva o uguale per tutti? Riguarderà anche i beni di proprietà di enti ecclesiastici?).
La Francia, proprio in queste settimane, ha ridefinito il contributo di solidarietà sui grandi patrimoni, ma con una sostanziale differenza dalla Proposta in esame. Ha dettagliato nei particolari il sistema di prelievo che investe i patrimoni (oltre alle rendite), ma soprattutto la Francia non ha il livello di evasione fiscale che caratterizza l’Italia (fra i più elevati del mondo).
Al di là di questi aspetti, né la relazione né il testo formulano ipotesi circa le necessità finanziarie dell’intervento normativo. Non indica quanto è il costo prevedibile. Ciò significa che, con tutta probabilità, la Commissione Bilancio esprimerà rilievi sostanziali verso tale incertezza assoluta.
Un’ultima notazione: il “sistema” previsto dalla Proposta è previsto come sperimentale. Dopo il terzo anno ne verrebbe valutato l’impatto e gli effetti reali.
La Proposta, presentata a fine giugno 2012 e assegnata alla XII Commissione Affari sociali, non è ancora stata “calendarizzata”, cioè l’analisi vera e propria non è ancora iniziata, il che ne rende piuttosto incerta la definitiva eventuale approvazione prima della fine della Legislatura fissata per la primavera del 2013.
1 ottobre 2012
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- Il testo della Proposta di legge A.C. n. 5319 “Istituzione del Fondo per la non autosufficienza” è disponibile sul sito della Camera dei Deputati