Abstract

In questa analisi si intendono esaminare le difficoltà e le sfide che gli studenti universitari con Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) affrontano durante il loro percorso accademico. Dopo una breve analisi dei dati riportati nel Rapporto ANVUR 2022, funzionale a comprendere l’elevata incidenza degli studenti con DSA nelle università italiane, vengono esaminate le criticità nelle attuali norme riguardanti l’accesso alle prove di ammissione di tali studenti, valutando anche il recente intervento del Consiglio di Stato e le sue implicazioni per il futuro delle politiche di inclusione universitaria. Infine, viene valutata l’efficacia delle misure compensative e delle politiche di inclusione nell’ambito universitario, proponendo possibili miglioramenti e interventi per garantire una maggiore equità e inclusione per tutti gli studenti, indipendentemente dalle loro condizioni di salute o di apprendimento. L’obiettivo finale è fornire un quadro completo e critico della situazione attuale, evidenziando sia i progressi che le aree in cui sono necessari ulteriori interventi per migliorare l’accesso e il successo degli studenti con DSA nell’istruzione universitaria.

Il messaggio

L’istruzione universitaria è complessa e per gli studenti con disabilità o DSA il percorso è ancora più difficile. Diverse leggi, tra cui la L. 17/1999 e il D.lgs. 68/2012, forniscono supporti e agevolazioni, come esoneri dalle tasse universitarie. La L. 170/2010 garantisce misure compensative anche per studenti con DSA. Tuttavia, esistono criticità nelle norme che tendono ad attuare il suo contenuto, come mostrato dai recenti decreti ministeriali e dall’ordinanza del Consiglio di Stato. Tali interventi, infatti, se hanno sottolineato la necessità di adattare le prove di ammissione per garantire pari opportunità anche agli studenti con DSA al contempo mettono in crisi lo stesso principio di uguaglianza. Il diritto all’istruzione, sostenuto dalla Costituzione, richiede politiche integrate per promuovere l’uguaglianza e l’inclusione tuttavia senza perdere di vista la finalità generale voluta dalla Costituzione stessa.

Indice

 

1. Introduzione

Il contesto universitario è universalmente riconosciuto per la sua complessità e l’impegno richiesto. Se questo è noto è altrettanto noto che per gli studenti con vari livelli di disabilità o altri disturbi, il percorso di integrazione e completamento degli esami per arrivare alla laurea sia estremamente complesso. Sia la disabilità che i Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) compromettono, infatti, significativamente le normali capacità di adattamento e la partecipazione degli studenti nell’istruzione sia essa scolastica o universitaria.

In via generale le situazioni sopra descritte vengono affrontate da specifiche disposizioni normative che definiscono il tipo e il grado di limitazioni funzionali che permettono agli studenti universitari di accedere a misure e servizi di supporto. Così la legge del 28 gennaio 1999, n. 17 assicura agli studenti con disabilità – chiamati “handicappati” nel testo legislativo dell’epoca – specifici sussidi tecnici e didattici e servizi di tutorato specializzato, estendendo la possibilità di un trattamento personalizzato, già previsto in ambito scolastico, anche a quello universitario. In tempi successivi il D.lgs. 29 marzo 2012, n. 68 riconosce agli studenti con disabilità di cui all’articolo 3, comma 1, della legge 5 febbraio 1992, n. 104 o con un’invalidità pari o superiore al 66% un esonero totale dalla tassa di iscrizione e dai contributi universitari. Lo stesso decreto all’art. 9, comma 7, lett. a) consente inoltre alle università statali, nei limiti delle loro risorse di bilancio ed in considerazione della condizione economica dello studente, di concedere esoneri totali o parziali dalla tassa di iscrizione e dai contributi universitari anche per gli studenti con invalidità inferiore al 66%.

A partire dal 2010, con la legge 8 ottobre 2010, n. 170 la necessità di tutelare anche il diritto allo studio degli studenti con DSA ha introdotto la possibilità, ove tale situazione sia riscontrata da una certificazione sanitaria, di un riconoscimento delle misure dispensative e compensative, ed una certa flessibilità didattica anche negli studi universitari. L’art. 5, comma 4, della l. n. 170/2010 stabilisce, infatti, che, durante il percorso universitario, agli studenti con DSA siano garantite forme di verifica e valutazione adeguate per gli esami universitari, per gli esami di Stato e per quelli di ammissione all’università. D’altra parte il fenomeno non può essere più sottaciuto se solo si ha riguardo al numero degli studenti affetti da disabilità e con DSA. Così nel rapporto ANVUR Gli studenti con disabilità e dsa nelle università italiane Una risorsa da valorizzare il tema della disabilità e dei disturbi specifici di apprendimento viene analizzato in tutti i suoi aspetti andando a colmare l’assenza di un processo di raccolta dati per così dire “istituzionale” che non consente di effettuare interventi mirati. Il rapporto che riferisce dati relativi agli anni 2019/2020 indica via generale che gli studenti e le studentesse con disabilità o Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) che frequentano le università italiane sono pari a 36.370, con una incidenza del 2% sul numero degli iscritti. Questo dato generale viene ulteriormente “raffinato” indicando che, tra di essi, gli studenti con DSA sono 16.084 mentre coloro con un’invalidità superiore al 66% secondo la legge 104/92 sono 17.003, e quelli con una disabilità inferiore al 66% sono 3.283. Il dato complessivo può, quindi e a ben ragione, essere considerato importante così come parimenti importante è il dato dei soli studenti DSA in ragione del fatto che questa categoria di studenti ha visto il suo riconoscimento in tempi più recenti. Gli studenti universitari con DSA rappresentano, d’altra parte, una proiezione di quanto accade all’interno del sistema scolastico, dove il numero di alunni con DSA è cresciuto notevolmente, passando dallo 0,7% dell’A.S. 2010/2011 al 3,2% nell’A.S. 2017/2018. Un fenomeno che, anche in considerazione dell’incalzare delle norme internazionali e dell’Unione Europea, non può più quindi essere sottaciuto. Proprio a tale livello internazionale ed europeo, d’altra parte, una serie di interventi puntuali sottolineano l’importanza di sostenere uno spazio politico e culturale in cui l’educazione e la formazione siano la chiave per la piena realizzazione e lo sviluppo di tutti, senza esclusione di alcuno. Nella nuova prospettiva nuova in cui la sfera sociale vista non è più solo un luogo di erogazione di cure e assistenza bensì di emancipazione d–è chiaro come le opportunità di sviluppo della persona e il livello di inclusione sociale debbano mirare alla completa realizzazione del progetto di vita di ciascuno ma anche alla libertà di scelta e allo sviluppo delle proprie capacità intrinseche nello studio come nel lavoro. È il pactum societas che impone, d’altra parte, di indicare il percorso necessario alla difesa degli individui attraverso la ideazione di politiche pubbliche e azioni che garantiscano il rispetto e l’integrità della dignità dei più fragili.

In questo processo di difesa e costruzione, l’istruzione, quale strumento di sviluppo delle capacità intellettuali, creative e relazionali di ciascun individuo, assume un ruolo cruciale. In questo senso, l’art. 34 della Costituzione laddove afferma che «la scuola è aperta a tutti» dà garanzia del fatto che il diritto all’istruzione debba concretizzarsi non solo nell’accesso agli istituti scolastici ma anche nel sostegno necessario a ciascun individuo a completare il suo percorso di studio secondo le sue capacità e meriti, indipendentemente dalle condizioni economiche, sociali o culturali.

Lo studio rappresenta, quindi, un modo per ridurre le disuguaglianze e, al contempo, per promuovere l’uguaglianza di opportunità in un contesto complesso di intrecci ed interconnessioni con altri diritti e interessi costituzionalmente riconosciuti. Come non pensare alla relazione fra studio e lavoro, essendo spesso proprio l’istruzione superiore quel requisito fondamentale per l’ingresso nel mondo del lavoro che garantisce effettività all’art. 4 della Costituzione; ovvero alla relazione fra studio e salute ovvero fra studio ed altri principi generali della nostra costituzione come, appunto, il principio di uguaglianza. Il diritto allo studio, quindi, compreso quello universitario, pur fondandosi su un principio costituzionale chiaro e ben definito, richiede un approccio integrato e intersettoriale che consideri le relazioni di questo diritto con altri diritti e interessi costituzionalmente garantiti.

2. L’accesso a numero “programmato”

È questo il contesto nel quale – alla luce di due direttive dell’allora Comunità economica europea, ora abrogate e a garanzia del principio della libera circolazione dei cittadini europei all’interno dell’Unione – si chiedeva un’armonizzazione dei corsi di studio finalizzata a garantire l’alta qualità della formazione. L’intervento europeo, valorizzato anche da un’importante sentenza della Corte Costituzionale, induceva il legislatore ad intervenire sul complesso tema attraverso la l. 2 agosto 1999, n. 264, che razionalizzava il sistema di “attribuzione dei posti” mediante un processo di selezione definito ad “accesso programmato”. L’incapacità del mercato del lavoro di assorbire gli studenti laureati ovvero l’incapacità dei singoli atenei di offrire servizi di qualità ad un numero eccessivamente elevato di studenti hanno così finito per incidere sui livelli di programmazione. Proprio queste criticità, infatti, hanno spinto il legislatore ad introdurre, a livello nazionale seppur limitatamente ad alcuni corsi di studio, una programmazione degli accessi esclusivamente a numero programmato. Parimenti a livello locale hanno riservato agli Atenei la possibilità di stabilire in modo autonomo un tetto al numero dei posti disponibili. Mentre in quest’ultimo caso le prove di ammissione sono stabilite da ciascun Ateneo, nel primo caso, ovvero nei corsi ad accesso esclusivamente a numero programmato, le prove di ammissione sono stabilite direttamente dal Ministero attraverso appositi decreti. Tali decreti, emanati con cadenza annuale stabiliscono, in modo unitari e con valenza per l’intero territorio nazionale, i giorni e gli orari di svolgimento delle prove; i programmi relativi ai quesiti delle prove di ammissione; le modalità di attribuzione dei punteggi e della gestione delle graduatorie; le “regole” alle quali gli atenei devono attenersi per gli aspetti organizzativi delle prove stesse.

 

2.1. L’accesso programmato e le disposizioni per gli studenti con DSA. L’intervento del Consiglio di Stato

A partire dalla l. 104/1992 con riferimento agli studenti disabili e, successivamente, dalla L. 170/2010 con riferimento agli studenti con Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) il Ministero si è trovato a dover adattare le regole dei test di ammissione ai bisogni di questi studenti. In particolare con riferimento all’anno accademico 2024/2025 sono stati emanati due decreti ministeriali – Decreto Ministeriale n. 472 del 23.02.2024, Definizione delle modalità e dei contenuti delle prove di ammissione ai corsi laurea magistrale a ciclo unico in medicina e chirurgia, Odontoiatria e protesi dentaria e medicina veterinaria per l’a.a. 2024/2025 e D. M. n. 627 del 24.04.2024, Modalità e contenuti delle prove di ammissione al corso di laurea e laurea magistrale a ciclo unico direttamente finalizzato alla formazione di Architetto (lingua italiana e lingua inglese) a.a. 2024/2025 – che nello stabilire le modalità di ammissione dei candidati con invalidità, disabilità e con diagnosi di DSA, pongono seri problemi di coerenza interna. Nel d.m. n. 472 del 23 febbraio 2024, infatti, l’art. 9, comma 4, lett. b) stabilisce che «in caso di particolare gravità certificata del DSA, gli atenei possono consentire, al fine di garantire pari opportunità nell’espletamento delle prove stesse, l’utilizzo dei seguenti strumenti compensativi: calcolatrice non scientifica; video ingranditore o affiancamento di un lettore scelto dall’ateneo con il supporto di appositi esperti o del Servizio disabili e DSA di ateneo, ove istituito». Il decreto prosegue stabilendo che «non sono in ogni caso ammessi i seguenti strumenti: dizionario e/o vocabolario formulario; tavola periodica degli elementi; mappa concettuale; personal computer, tablet, smartphone ed altri strumenti similari». Differentemente, invece, nel d.m. n. 627 del 24 aprile 2024 l’art. 4, comma 4, lett. b), afferma che: «in caso di particolare gravità certificata del DSA, gli Atenei – nella loro autonomia – possono valutare ulteriori misure atte a garantire pari opportunità nell’espletamento delle prove stesse».

Al di là dei motivi che possono essere posti a base di questa differenziazione, dal punto di vista giuridico risulta difficile trovare una giustificazione che consenta di non considerare irragionevolmente difformi, in quanto macroscopicamente contrarie al principio di parità di trattamento, le soluzioni proposte dai due decreti. Una violazione che rischia di amplificarsi ulteriormente in ragione del fatto che nel d.m. n. 627 del 24 aprile 2024, l’individuazione delle ulteriori misure da adottare – oltre alla concessione di un tempo aggiuntivo ulteriore fino ad un massimo del 30% – viene rimessa alla discrezionalità dei singoli atenei.

L’irrazionalità delle scelte non è passata inosservata ai giudici amministrativi che sono stati sollecitati ad intervenire per ristabilire proprio quella “razionalità” mancante.

L’occasione viene dal ricorso presentato da una studentessa di un liceo classico che decide di presentarsi a sostenere il test di ammissione al Corso di laurea in medicina presso l’Ateneo di Torino. Il ricorso, presentato in anticipo rispetto al momento di svolgimento del test, poggia su due motivi principali: un primo, volto a chiedere l’annullamento di quella parte del decreto ministeriale che restringe il perimetro degli strumenti compensativi a disposizione degli studenti con DSA; un secondo, a supporto della scelta per un ricorso in via cautelare. Al pronunciamento negativo del TAR del Lazio che aveva rilevato l’assoluta mancanza del periculum in mora ha fatto seguito l’ordinanza del Consiglio di Stato che «in ragione della immediata potenzialità lesiva della previsione impugnata» ha riconosciuto il pieno diritto degli studenti universitari con DSA ad utilizzare «ove specificamente previsti dall’ultimo Piano Didattico Personalizzato concernente la candidata – anche i seguenti strumenti individuali di supporto: dizionario, vocabolario, formulario, tavola periodica degli elementi, mappa concettuale, previa loro verifica in sede di accesso ai luoghi di svolgimento della prova e comunque sotto la vigilanza dell’organizzazione del concorso, fatta comunque salva l’esclusione di personal computer, tablet, smartphone e ogni altro strumento elettronico e telematico, in ragione della più critica sorvegliabilità dell’impiego di tali strumenti a garanzia della parità di trattamento dei candidati».

Si tratta a questo punto di cercare di fare ordine all’affastellarsi di atti – normativi e giudiziari – che nello spazio di pochi mesi sono intervenuti sul tema partendo proprio dall’analisi dei decreti.

Una prima riflessione si deve appuntare sul presupposto, peraltro richiamato in entrambi i decreti ministeriali, che legittima l’utilizzo degli ausili tanto nel caso in cui sia il decreto a nominarli quanto in quello in cui la scelta per quali ammettere sia rimessa alla discrezionalità degli atenei. È dato evidenziare, infatti, come in entrambi i decreti si faccia riferimento alla «particolare gravità certificata». Un presupposto che dal punto di vista lessicale non evidenzia alcuna criticità essendo chiaro che la particolare gravità debba essere indicata e, quindi, rilevabile dalla certificazione e non possa essere rimessa alla valutazione discrezionale dei singoli presidi presenti nelle università. Solo nel primo caso ossia nel caso in cui nella certificazione vi sia una indicazione in tale senso si garantisce la piena “scientificità” della valutazione e, conseguentemente, l’eventuale necessità dell’accesso ad ulteriori misure individuali. In ogni caso ed indipendentemente dal soggetto che deve effettuare la valutazione pare necessario che sia sempre effettuato il vaglio della particolare gravità non potendosi giustificare eventuali scelte semplificative che portano a dichiarare sempre e comunque presente una situazione di gravità, con conseguente ammissione ai test con ulteriori ausili di tutti gli studenti che abbiano una certificazione che attesti la presenza di un disturbo specifico di apprendimento.

Una seconda riflessione si deve appuntare, invece, sulla esportabilità del PDP, che secondo il Consiglio di Stato dovrebbe rappresentare la fonte dalla quale trarre indicazioni utili se non addirittura determinanti per individuare quali siano gli ausili il cui utilizzo è consentito in sede di prova di esame di ammissione. Il richiamo del PDP al quale si attribuisce in assenza di un intervento normativo valore anche in ambiti nei quali la legge non lo prevede desta moltissime perplessità. Difficile pensare che quello strumento possa essere trasferito, proprio in considerazione della funzione che svolge nell’ambito scolastico e delle modalità attraverso le quali viene redatto, possa valere seppur limitatamente alle misure di adattamento in un contesto in cui il processo di apprendimento si realizza in modo completamente diverso.

E non è un caso, quindi, che questo strumento non sia affatto previsto in ambito universitario, dove eventuali piani individuali trovano la loro genesi prevalentemente se non esclusivamente facendo riferimento a quanto indicato nella certificazione prodotta dallo studente con DSA.

 

3. Il d.m. n. 627/2024 e le linee guida dell’11 luglio 2011

 

Se questo vale in generale, un successivo punto problematico si pone, invece, in relazione al d.m. n. 627/2024. E ciò non tanto dal punto di vista della compatibilità con la l. 170/2010. Tale decreto ministeriale, infatti, rappresenta un’attuazione di quanto disposto dall’art. 5 della l. 170/2010 laddove al comma 4 afferma che «agli studenti con DSA sono garantite, durante il percorso di istruzione e di formazione scolastica e universitaria, adeguate forme di verifica e di valutazione, anche per quanto concerne gli esami di Stato e di ammissione all’università nonché gli esami universitari».

I dubbi cominciano a sorgere, tuttavia, allorquando la comparazione avvenga con il d.m. 12 luglio 2011 attuativo della l. n. 170/2010. L’art. 6 del d.m. 12 luglio 2011 nei suoi commi conclusivi e, precisamente, nei commi 8 e 9 effettua, infatti, un’importante distinzione consentendo di enucleare due ipotesi. La prima alla quale fa riferimento il comma 8 dell’art. 6 del decreto ministeriale che, collegandosi alle «prove di ammissione ai corsi di laurea e di laurea magistrale programmati a livello nazionale o da parte delle università», prevede per queste «tempi aggiuntivi, ritenuti congrui in relazione alla tipologia di prova e comunque non superiori al 30% in più rispetto a quelli stabiliti per la generalità degli studenti, assicurando altresì l’uso degli strumenti compensativi necessari in relazione al tipo di DSA». La seconda alla quale fa riferimento il comma 9 dello stesso decreto ministeriale che collegandosi alla «valutazione degli esami universitari di profitto» afferma, limitatamente a questo ambito che tale valutazione sia «effettuata anche tenendo conto delle indicazioni presenti nelle allegate Linee guida».

La costruzione della frase consentirebbe di affermare – il condizionale è d’obbligo – che per la sola valutazione degli esami universitari si debba tenere conto delle linee guida come ben sottolineato dall’utilizzo della parola “anche”.

Il testo delle linee guida smentisce, tuttavia, questa distinzione perché al suo interno si occupa proprio e partitamente dei test di ammissione affermando in primo luogo che la presentazione della certificazione diagnostica, al momento dell’iscrizione, permette di accedere ai test di ammissione con determinate modalità. Se si vanno a leggere le modalità, tuttavia, non è chiaro se queste facciano riferimento tutte all’ambito proprio del test di ammissione. Sicuramente appartiene a questo insieme il secondo punto delle modalità che, in conformità con il d.m. 12 luglio 2011, stabilisce che «la concessione di un tempo aggiuntivo fino a un massimo del 30% in più rispetto a quello definito per le prove di ammissione ai corsi di laurea e di laurea magistrale programmati a livello nazionale o dalle università ai sensi dell’art. 4 della legge 2 agosto 1999 n. 264». Presumibilmente appartiene a questo insieme anche l’ultimo punto che afferma con riferimento al solo «caso di particolare gravità certificata del DSA» che «gli Atenei – nella loro autonomia possono valutare ulteriori misure atte a garantire pari opportunità nell’espletamento delle prove stesse».

Il d.m. n. 672/2024 ragionevolmente, quindi, fa propria questa frase riprendendola dalle linee guida del 2011 per attribuire agli Atenei nella loro autonomia uno spazio valutativo autonomo che parta comunque dalla valutazione positiva del presupposto della particolare gravità certificata.

Saranno, quindi, le linee guida ora trasposte nel d.m. n. 672/2024 a consentire agli Atenei – rilevato dal certificato il presupposto della particolare gravità – di decidere quali eventuali adattamenti siano necessari a (ri)stabilire una parità dei punti di partenza fra studenti con e senza DSA. E qui entra in gioco un ulteriore profilo: se, infatti, gli adattamenti come scritto chiaramente nelle linee guida e ora anche nel d.m. n. 672/2024 devono garantire «misure atte a garantire pari opportunità» queste misure non potranno certamente essere tali da creare una situazione di vantaggio per gli studenti con certificazione. Se così fosse, infatti, si introdurrebbe una chiara ipotesi di discriminazione alla rovescia trovandosi discriminata quella fascia di studenti normalmente ritenuta privilegiata. Su questo quadro complesso si colloca, poi e da ultimo, l’ordinanza del Consiglio di Stato sopra richiamata.

Se l’intervento dei giudici ha avuto il merito di portare all’attenzione un tema estremamente complesso a volte sottaciuto è poi il contenuto dell’ordinanza con la quale il Consiglio di Stato ha interpretato la normativa intervenuta sul tema a destare qualche perplessità. Ammettere con le parole del Consiglio di Stato che il candidato, con un disturbo di particolare gravità, possa avere, seppur sub iudice dell’Ateneo nel quale effettua la prova, «strumenti individuali di supporto» quali il «dizionario, vocabolario, formulario, tavola periodica degli elementi, mappa concettuale» apre, infatti, una serie innumerevole di criticità. La prima criticità si rileva in quella parte dell’ordinanza che si va a sostituire ad una prerogativa che il decreto ministeriale attribuisce all’Ateneo. Una sostituzione pericolosa in termine strettamente giuridici perché in grado di annientare la possibilità di scelta dei singoli atenei che, si trovano, attualmente nella condizione di dover attribuire tutti gli strumenti individuali di supporto indicati dai giudici del Consiglio di Stato anche quando questi introducano delle vere e proprie facilitazioni – si pensi ai dizionari che contengono già la risposta ad una domanda della prova. Ovvero come le mappe concettuali che non solo appaiono poco pertinenti per il tipo di prova che si va a svolgere ma che implicano altresì un difficile, se non impossibile, controllo dell’adeguatezza dello strumento da parte dell’Ateneo anteriormente all’utilizzo delle stesse. Le perplessità suscitate dall’ordinanza non finiscono qui. Che dire, infatti, di quella parte dell’ordinanza nella quale si richiama il Piano didattico personalizzato? Nell’intenzione ancora una volta di guidare la discrezionalità e l’autonomia degli Atenei, infatti, i Consiglieri di Stato indicano anche la fonte ovvero appunto il Piano didattico personalizzato dalla quale gli Atenei debbono trarre indicazioni per l’individuazione di ulteriori e possibili adattamenti. Attraverso un intervento giurisprudenziale (e non normativo!), quindi, i giudici traspongono in ambito universitario uno strumento la cui efficacia e validità è pensata e limitata dal d.m. 11 luglio 2011 al solo ambito scolastico. L’art. 5 del decreto ministeriale afferma chiaramente che «la scuola» è il luogo che «garantisce ed esplicita, nei confronti di alunni e studenti con DSA, interventi didattici individualizzati e personalizzati, anche attraverso la redazione di un Piano didattico personalizzato, con l’indicazione degli strumenti compensativi e delle misure dispensative adottate».

Con tutta una serie di conseguenze e perplessità ulteriori che aprono nuovi interrogativi. Ad esempio, ci si dovrebbe chiedere quale debba o possa essere il rapporto fra il PDP e la certificazione dal momento che, a termini di legge, proprio la certificazione rappresenta per gli Atenei l’unico documento da acquisire anche ai fini di una possibile “personalizzazione” del percorso di studio universitario. Ed ancora perché se il d.m. n. 627/2024 attribuisce un ruolo agli Atenei questo poi sia limitato dal giudice restringendo proprio quell’autonomia che il legislatore gli ha voluto attribuire forse anche oltre quelli che sono i loro reali compiti.

Senza rimettere in discussione il tracciato delle linee guida del 2011 adesso fatto proprio dal d.m. n. 627/2024 sarebbe sufficiente ricomporre il quadro d’insieme in modo tale da ricondurlo ad unitarietà.

Chiedendo ai giudici che effettueranno i successivi passaggi di approfondire ulteriormente il tema dando risposta agli interrogativi sopra esposti; chiedendo al Ministero qualora abbia intenzione di trasporre alcune parti delle linee guida del 2011 all’interno dei decreti di regolazione dell’accesso a numero programmato di dare chiarezza al quadro complessivo.

 

Tratto dalla rivista Adapt a firma di Vincenzo Falabella e Maria Paola Monaco

 

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