Può il caregiver familiare di un minore gravemente disabile,  azionare la tutela antidiscriminatoria che sarebbe riconosciuta al medesimo disabile?

Un’ interessante ordinanza della Corte di Cassazione.

La Suprema Corte di Cassazione, Sez. quarte civile, con ordinanza pubblicata il 17 gennaio 2024, ha chiesto alla Corte di Giustizia Europea di pronunciarsi, in via pregiudiziale, su un caso veramente interessante.

Considerazioni preliminari.

Va doverosamente premesso che, a seguito della legge 162/2021 ed in particolare con l’introduzione del nuovo art. 25, comma 2 bis, richiamato dalla Suprema Corte ma escluso dalla stessa, ma non applicabile al caso in decisione in quanto introdotto successivamente, la questione potrebbe essere risolta per via interpretativa.

Infatti nel nuovo comma 2 bis è stata la nozione di discriminazione: costituisce discriminazione, ai sensi del presente titolo, ogni trattamento o modifica dell’organizzazione delle condizioni e dei tempi di lavoro che, in ragione del sesso, dell’età anagrafica, delle esigenze di cura personale o familiare, dello stato di gravidanza nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti, pone o può porre il lavoratore in almeno una delle seguenti condizioni: a) posizione di svantaggio rispetto alla generalità degli altri lavoratori; b) limitazione delle opportunità di partecipazione alla vita o alle scelte aziendali; c) limitazione dell’accesso ai meccanismi di avanzamento e di progressione nella carriera”.

Tale nozione precisa in maniera chiara la nozione di discriminazione, soprattutto indiretta.

Inoltre, si potrebbe comunque sostenere che gli “accomodamenti ragionevoli” possano essere adottati in ossequio ai principi della Nostra Costituzione.

Il fatto.

Un caregiver familiare del figlio minore convivente e gravemente disabile, ha chiesto l’accertamento del carattere discriminatorio del comportamento tenuto nei suoi riguardi da ATAC spa, suo datore di lavoro, nonché l’assegnazione stabile ad un turno fisso dalle 8,30 alle 15,00 (o, comunque, compatibile con le esigenze del detto figlio), l’adozione di un piano di rimozione delle discriminazioni e la condanna al risarcimento del danno.

Nel suo ricorso ha dedotto la mancata flessibilità degli orari di lavoro dell’Azienda ATAC che, non accogliendo le sue istanze, avanzate appunto come caregiver familiare, avrebbe omesso di assegnarla stabilmente ad un turno fisso di mattina per lo svolgimento delle mansioni di operatore di stazione, o anche, con il suo consenso di mansioni di livello inferiore, in modo da consentirle di assistere il detto figlio nelle ore pomeridiane e contestualmente di continuare a svolgere la propria attività lavorativa in condizioni di eguaglianza con gli altri dipendenti.

Il Tribunale di Roma, con ordinanza n.66193/2019, ha rigettato il ricorso.

Per nulla scoraggiato, il genitore ha proposto appello, che la Corte d’appello di Roma con sentenza n. 1444/2020, ha rigettato nel merito, sul presupposto che non fosse stata dimostrata l’esistenza di una condotta discriminatoria e che, comunque, il datore di lavoro avrebbe posto in essere degli “accomodamenti ragionevoli”.

La Corte ha ritenuto che l’Azienda avesse comunque sufficientemente agevolato la dipendente, nonostante avesse adottato degli ordini di servizio sempre provvisori e che, per quanto concerne il trattamento riservato ai lavoratori non idonei a rendere con le modalità ordinarie la prestazione lavorativa, destinati provvisoriamente ad altri compiti in attesa di essere riqualificati in differenti mansioni (con assegnazione ad un turno agevolato o c.d. di sussidio presso una sede di lavoro fissa), l’ATAC spa non le ha concesso questa possibilità, al contrario dei suoi colleghi il quali erano essi stessi i destinatari delle prescrizioni mediche indicate nelle certificazioni prodotte.

La questione perciò è pervenuta all’attenzione degli Ermellini.

Il Ricorso per Cassazione.

I motivi proposti dal genitore nel ricorso sono stati due e comprendevano la sussistenza dei requisiti di legge per la tutela del suo diritto alla non discriminazione per ragioni di disabilità nei luoghi di lavoro, la negazione che l’ATAC spa avesse posto in essere “accomodamenti ragionevoli”, anche perché essa riteneva di avere un diritto assoluto a che tali “accomodamenti ragionevoli” fossero realizzati, la prospettazione che la concessione di provvedimenti provvisori, limitati a pochi mesi per periodi discontinui e privi della forma scritta, non escludesse la discriminazione denunciata ed infine, lamentando la violazione delle regole in tema di prova della discriminazione.

Le norme Europee e Nazionali rilevanti ai fini della decisione.

Preliminarmente la Suprema Corte, ha individuato quali siano le norme dell’Unione Europea rilevanti ai fini del decidere, riguardo al presupposto se sia o meno legittimato il caregiver familiare di un minore disabile convivente ad azionare la tutela antidiscriminatoria prevista dalla Direttiva 2000/78/CE riconosciuta al solo lavoratore disabile.

Nel caso in esame, in particolare, se gravi sul datore di lavoro del caregiver, l’obbligo di adottare soluzioni ragionevoli per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento nei confronti degli altri lavoratori, sul modello di quanto previsto per i disabili dall’art. 5 della Direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.

Ovviamente il tutto alla luce della Convenzione Onu per i diritti delle persone con disabilità.

Un altro dato importante dal punto di vista europeo è la sentenza della Grande Sezione della CGUE del 17 luglio 2008, Causa C-303/06, Coleman.

In sostanza detta sentenza ha stabilito un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro e, in particolare, gli artt. 1 e 2, nn. 1 e 2, lett. a) della Direttiva del Consiglio 27 novembre 2000, 2000/78/CE, devono essere interpretati nel senso che il divieto di discriminazione diretta, ivi previsto, non è limitato alle sole persone che siano esse stesse disabili. Qualora un datore di lavoro tratti un lavoratore, che non sia esso stesso disabile, in modo meno favorevole rispetto al modo in cui è, è stato o sarebbe trattato un altro lavoratore in una situazione analoga, e sia provato che il trattamento sfavorevole di cui tale lavoratore è vittima è causato dalla disabilità del figlio, al quale presta la parte essenziale delle cure di cui quest’ultimo ha bisogno, un siffatto trattamento viola il divieto di discriminazione diretta enunciato al detto art. 2, n. 2, lett. a.

Individuate le norme europee rilevanti, la Corte si sofferma sulle norme nazionali esistenti e rilevanti anch’esse per la decisione.

In particolare sull’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 216 del 2003, il quale, intitolato “Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro fornisce la nozione di discriminazione diretta ed indiretta:

“discriminazione diretta quando, per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga”;

“discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone”.

La Corte poi rileva che il nuovo art. 25, comma 2 bis, del d.lgs. n. 198 del 2006 (c.d. Codice delle pari opportunità), introdotto dall’art. 2, comma 1, della legge n. 162 del 2021 non può essere applicato alla decisione in quanto successivo ai fatti di causa, ma comunque lo cita.

Infatti il comma 2 bis dice che “costituisce discriminazione, ai sensi del presente titolo, ogni trattamento o modifica dell’organizzazione delle condizioni e dei tempi di lavoro che, in ragione del sesso, dell’età anagrafica, delle esigenze di cura personale o familiare, dello stato di gravidanza nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti, pone o può porre il lavoratore in almeno una delle seguenti condizioni: a) posizione di svantaggio rispetto alla generalità degli altri lavoratori; b) limitazione delle opportunità di partecipazione alla vita o alle scelte aziendali; c) limitazione dell’accesso ai meccanismi di avanzamento e di progressione nella carriera”.

La decisione.

Il ragionamento effettuato dai Giudici della Suprema Corte per arrivare all’ordinanza e rimettere la questione in via pregiudiziale alla Corte di Giustizia Europea, può sembrare, ad una prima analisi articolato, ma se letto attentamente è lineare e molto chiaro.

Il caregiver familiare, dice la Corte, non gode, nell’ordinamento italiano, di una tutela generale contro le discriminazioni e le molestie subite sul posto di lavoro in ragione dei compiti di cura che ha nei confronti del familiare da assistere.

Egli beneficia solo di specifici istituti riconosciuti da particolari norme di legge che, peraltro, si limitano spesso ad estendere al caregiver forme di protezione non sue, ma proprie del disabile che assiste.

Per questo motivo il giudice di primo grado aveva negato la legittimazione del caregiver ad agire contro le condotte discriminatorie, non essendo egli, ma la persona con disabilità, il soggetto titolare del diritto a reagire contro le discriminazioni lavorative.

D’altro canto, la Corte d’appello di Roma, pur rigettando il ricorso sulla base del fatto che erano stati adottati dall’azienda congrui accomodamenti ragionevoli, aveva ritenuto comunque che il caregiver avesse, invece, il pieno diritto di avvalersi delle disposizioni nazionali che proteggevano la persona con disabilità contro le discriminazioni lavorative, soprattutto degli artt. 2, comma 1, e 3, comma 3 bis, del d.lgs. n. 216 del 2003 citando a supporto la sentenza Coleman.

La Suprema Corte però si è posta un dubbio, legittimo a parere di chi scrive, sulla interpretazione della sentenza Coleman ed alla luce della Convenzione Onu per i diritti delle persone con disabilità e la susseguente evoluzione normativa.

In particolare se un’interpretazione del diritto dell’Unione, formatosi sulla base della direttiva 2000/78/CE e della sentenza Coleman del 17 luglio 2008, che non consente al caregiver familiare di minore gravemente disabile, di ottenere tutela in presenza di una discriminazione indiretta sul posto di lavoro dovuta alla necessità di fornire le cure necessarie al detto disabile, limitando ogni protezione alle ipotesi di discriminazione diretta, tenga conto in maniera adeguata della ratifica, da parte dell’Unione, della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità – in particolare dei suoi artt. 19, 23, 28, comma 2, lett. c), in combinato disposto con l’art. 5 – in conformità alla quale dovrebbe essere interpretata, per quanto possibile, la direttiva 2000/78/CE.

La Corte prosegue il ragionamento sostenendo che se fosse accolta un’interpretazione estensiva della normativa dell’Unione, con il riconoscimento al caregiver familiare di un minore disabile, del diritto di agire anche contro le discriminazioni indirette patite sul luogo di lavoro in ragione delle cure prestate a tale disabile, sarebbe necessario chiarire se la tutela così riconosciuta comporti la nascita, a carico del datore di lavoro del caregiver, dell’obbligo di adottare soluzioni ragionevoli per garantire, anche in favore dello stesso, il rispetto del principio della parità di trattamento nei confronti degli altri lavoratori, sul modello di quanto previsto per le persone con disabilità dall’art. 5 della Direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27 novembre 2000.

Infine, ove al caregiver familiare di un minore disabile fosse attribuito il diritto di agire anche contro le discriminazioni indirette patite sul luogo di lavoro in ragione delle cure prestate a tale disabile, sarebbe doveroso definire la nozione di caregiver rilevante ai fini dell’applicazione della Direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27 novembre 2000.

Sorgerebbe infatti, la questione se il caregiver possa essere qualunque soggetto, appartenente alla cerchia familiare o convivente di fatto, che si prenda cura in un ambito domestico, anche informalmente, in via gratuita, quantitativamente significativa, esclusiva, continuativa e di lunga durata, di una persona che, in ragione della propria grave disabilità, non sia assolutamente autosufficiente nello svolgimento degli atti quotidiani della vita o se, invece, la definizione di caregiver in questione sia più ampia o più ristretta.

I quesiti proposti.

Pertanto, sulla base di questi dubbi interpretativi, la Suprema Corte ha rimesso in via pregiudiziale, alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, tre quesiti sui quali pronunciarsi, che si riportano così come nell’ordinanza:

“a) se il diritto dell’Unione europea debba interpretarsi, eventualmente in base anche alla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, nel senso che sussista la legittimazione del caregiver familiare di minore gravemente disabile, il quale deduca di avere patito una discriminazione indiretta in ambito lavorativo come conseguenza dell’attività di assistenza da lui prestata, ad azionare la tutela antidiscriminatoria che sarebbe riconosciuta al medesimo disabile, ove quest’ultimo fosse il lavoratore, dalla Direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro;

  1. b) se, nell’ipotesi di risposta affermativa alla questione a), il diritto dell’Unione europea vada interpretato, eventualmente in base anche alla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, nel senso che gravi sul datore di lavoro del caregiver di cui sopra l’obbligo di adottare soluzioni ragionevoli per garantire, altresì in favore del detto caregiver, il rispetto del principio della parità di trattamento nei confronti degli altri lavoratori, sul modello di quanto previsto per i disabili dall’art. 5 della Direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro;
  2. c) se, nell’ipotesi di risposta affermativa alla questione a) e/o alla questione b),il diritto dell’Unione europea vada interpretato, eventualmente in base anche alla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, nel senso che per caregiver rilevante ai fini dell’applicazione della Direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27 novembre 2000 si debba intendere qualunque soggetto, appartenente alla cerchia familiare o convivente di fatto, che si prenda cura in un ambito domestico, pure informalmente, in via gratuita, quantitativamente significativa, esclusiva, continuativa e di lunga durata di una persona che, in ragione della propria grave disabilità, non sia assolutamente autosufficiente nello svolgimento degli atti quotidiani della vita o se il diritto dell’Unione europea vada interpretato nel senso che la definizione di caregiver in questione sia più ampia o ancora più ristretta di quella sopra riportata.”

 

Approfondimento a cura del Centro Studi Giuridici HandyLex

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