Interessante orientamento da parte della Corte di Cassazione che con l’ordinanza n. 5048 del 26.02.2024, afferma il principio di diritto secondo cui: “in materia di rapporto di pubblico impiego privatizzato, dove la legge e la contrattazione collettiva predeterminano tutti gli elementi essenziali del contratto, come la qualifica, le mansioni, il trattamento economico e normativo e il periodo di prova, non sono ravvisabili ostacoli alla tutela costitutiva ex art. 63 D.Lgs. n. 165/2001 invocata dal lavoratore, iscritto nelle liste di avviamento obbligatorio e risultato idoneo al collocamento, dovendosi solo valutare, con accertamento di fatto riservato al giudice del merito, se siano o meno praticabili “ragionevoli accomodamenti”, nel rispetto dei principi stabiliti dalla direttiva 2000/78/CE, per rendere concretamente compatibile l’ambiente lavorativo con le limitazioni funzionali del lavoratore disabile”.
Il fatto.
Un lavoratore, invalido civile iscritto nelle liste di collocamento obbligatorio ex lege n. 68/1999, si doleva del fatto che con provvedimento dell’8.9.2011 da parte di una Azienda sanitaria provinciale (ASP), fosse stata dichiarata la sua inidoneità alle mansioni di operatore socio-sanitario Bs, quantunque in precedenza l’Azienda avesse riconosciuto la sua idoneità al lavoro.
In forza di ciò, ricorreva al Tribunale civile sez. lavoro, chiedendo che fosse dichiarata illegittima la sua esclusione dall’avviamento al lavoro ai sensi della legge n. 68/99 e che si affermasse la sua idoneità alle mansioni indicate, con conseguente diritto all’assunzione e all’immissione in ruolo con contratto a tempo indeterminato in conformità al profilo professionale e alla declaratoria contrattuale del c.c.n.l. del Comparto Sanità.
Il Tribunale, previo espletamento di una consulenza tecnica d’ufficio medico-legale, accoglieva parzialmente il ricorso e dichiarava illegittimo il rifiuto dell’ASP di stipulare il contratto di lavoro a conclusione dell’iter di avviamento obbligatorio, condannando l’Azienda al risarcimento del danno, liquidato in complessivi €. 44.834,99.
Il lavoratore però lamentava la mancata adozione del dictum costitutivo del rapporto di pubblico impiego ex art. 2932 cod. civ. ed impugnava la decisione presso la Corte d’appello competente, la quale però, rigettava l’impugnazione.
La decisione della Corte si basava sul presupposto che la costituzione del rapporto di lavoro, pur obbligatoria, non era automatica, richiedendo l’intervento della volontà delle parti ai fini della concreta specificazione del contenuto del contratto in ordine a mansioni, retribuzione, qualifica, e ciò tanto più nella specie, atteso che emergeva dalle risultanze della c.t.u. medica che le «mansioni a diretto contatto con gli ammalati, a maggior ragione se non autosufficienti, e l’uso di strumentazione» erano necessariamente inibite al ricorrente.
A seguito della pronuncia della Corte, il lavoratore si rivolgeva alla Suprema Corte con 2 motivi:
- con il primo motivo denunciava la violazione e falsa applicazione della legge n. 68/1999 e dell’art. 2932 cod. civ., della direttiva 2000/78/CE del 27.11.2000, nonché dell’art. 5, del c.c.n.l. Comparto Sanità, per avere ritenuto la Corte di merito preclusa la costituzione del rapporto di lavoro ex art. 2932 cod. civ., pur nella riconosciuta idoneità – seppure con rigide prescrizioni a tutela degli utenti – allo svolgimento delle mansioni per come accertata dal c.t.u. e nella corrispondenza tra qualifica richiesta dall’azienda di operatore sociosanitario, cat. Bs, e quella posseduta dal lavoratore;
- con il secondo lamentava, la violazione del principio di non discriminazione, a tutela dei lavoratori con handicap, dell’art. 3 comma 3 bis lgs. n. 216/2003, degli artt. 32-38 Cost., dell’art. 10 legge n. 68/1999, dell’art. 2087 cod. civ., della direttiva 2000/78/CE del 27.11.2000, articolo 5;
In sostanza, il lavoratore ha sostenuto nel suo ricorso che il diniego dell’ASP di costituire il rapporto di lavoro, benché fossero già definiti tutti gli elementi essenziali del rapporto (mansioni, retribuzione e qualifica), integrava una violazione del principio di parità di trattamento dei lavoratori portatori di handicap di cui all’art. 5 della direttiva 2000/78/CE del 27.11.2000 ‒ che obbliga tutti i datori di lavoro di adottare “accomodamenti ragionevoli per garantire ai disabili la piena uguaglianza con gli altri lavoratori” ‒ e all’art. 3 d.lgs. n. 216/2003 – erronea era altresì l’affermazione della Corte che competerebbe alla sola parte datoriale ogni valutazione sull’utilità economica di avvalersi di un operatore sociosanitario che non può usare strumentazione e avere contatti con gli ammalati.
La decisione.
L’analisi degli Ermellini parte da un ragionamento: nucleo fondamentale della sentenza impugnata è che l’avviamento del ricorrente non poteva che essere sottoposto, per come precisato dalla c.t.u. medico-legale, a specifiche prescrizioni a tutela della salute dello stesso lavoratore e dell’utenza con cui egli poteva venire in contatto; da qui l’esigenza di specifica determinazione aziendale delle concrete mansioni affidate nonché l’ulteriore necessità di una «preventiva concertazione tra le parti, non sostituibile da quella imposta dal giudice», donde anche l’impossibilità di «far luogo all’attivazione del rimedio ex art. 2932 cod. civ.»;
In effetti la Corte specifica che nella giurisprudenza di legittimità, richiamata dalla Corte d’Appello nella motivazione di rigetto, si è esclusa la possibilità di una pronuncia costituiva del rapporto di lavoro, essenzialmente sul rilievo che il sistema delle assunzioni obbligatorie è strutturato in modo tale da dar luogo all’obbligo del datore di lavoro di stipulare il contratto con i soggetti avviati dall’UPLMO, ma non alla costituzione automatica e autoritativa del rapporto, la cui nascita richiede necessariamente l’intervento della volontà delle parti ai fini della concreta specificazione del suo contenuto in ordine ad elementi essenziali quali la retribuzione, le mansioni, la qualifica; nel solco di tale impostazione, si è ritenuto che il lavoratore non può esperire, ove l’obbligo del datore di lavoro sia rimasto inadempiuto, il rimedio dell’esecuzione in forma specifica ai sensi dell’art. 2932 cod. civ., ma ha soltanto il diritto all’integrale risarcimento dei danni, ossia al ristoro delle utilità perdute per tutto il periodo del protrarsi di detto inadempimento
In base a questi principi, i giudici di secondo grado hanno concluso per il rigetto senza avvedersi, tuttavia, che la ragione della esclusione della possibilità di tutela costitutiva è stata fondata, anche in quelle pronunce, sulla necessità della determinazione negoziale ad opera delle parti degli elementi essenziali del contratto, quali la qualifica, la retribuzione, l’eventuale periodo di prova ecc.
Tant’è che in caso di insussistenza di tale necessità, come ad esempio nella ipotesi in cui è la legge medesima a prevedere la qualifica, le mansioni e il trattamento economico e normativo del lavoratore avviato, non sono stati ravvisati ostacoli alla possibilità di tutela costitutiva.
La Cassazione inoltre puntualizza come a sentenza impugnata, pur confermando che «la richiesta di avviamento dell’ASP faceva riferimento, per il lavoratore all’assunzione di un operatore socio sanitario disabile, la cui qualifica Bs, mansioni e trattamento economico erano previsti e disciplinati dalla legge e dal c.c.n.l. di settore», osserva tuttavia che doveva necessariamente trattarsi, nella specie, di un avviamento sottoposto a specifiche condizioni, a tutela della salute dello stesso lavoratore e dell’utenza, «con un’evidente problema di verifica del fabbisogno di dipendenti da assegnare alle mansioni individuate dal c.t.u. come non pericolose, essendo quindi tutt’altro che determinate o determinabili dal giudice sulla base di parametri certi […] le concrete mansioni alle quali l’appellante poteva essere assegnato»
Questa impostazione, secondo la Cassazione, non può essere condivisa; questo perché le ragioni ostative alla costituzione del rapporto non potevano automaticamente ravvisarsi negli esiti della c.t.u. medica che, nel confermare l’idoneità al lavoro, si era solo premurata di raccomandare alcune prescrizioni, a tutela della salute dello stesso lavoratore e dell’utenza, onde evitare situazioni di potenziale pericolo, di «escludere attività a diretto contatto con gli ammalati, a maggior ragione se non autosufficienti, e l’uso di strumentazione».
Tali prescrizioni rientravano, piuttosto, in quei “ragionevoli adattamenti” organizzativi (art. 3 comma 3 bis d.lgs. n. 216/2003) cui la parte datoriale pubblica è tenuta per consentire alle persone con disabilità di accedere al lavoro, entro i limiti della ragionevolezza, il cui accertamento di fatto è demandato allo stesso giudice del merito;
Ed è lo stesso art. 5 della direttiva 2000/78/CE che impone, l’adozione di provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato o eccessivo, con l’ulteriore precisazione tuttavia che la soluzione non può dirsi ex se sproporzionata allorché «l’onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili»; non si è mancato di precisare, inoltre, che l’adozione di tali misure organizzative è prevista in ogni fase del rapporto di lavoro, anche in quella genetica e, quindi, anche per gli assunti come invalidi ai fini del collocamento obbligatorio.
In base a tali assunti la Corte ha accolto il ricorso, cassando la sentenza della Corte d’Appello, e formulando il principio di diritto esposto all’inizio di questa disamina.
Approfondimento a cura del Centro Studi Giuridici HandyLex
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